Quasi tutti i casi di frodi e truffe internazionali sui quali Kroll ha investigato negli ultimi 5 anni ha coinvolto una società che era stata target di un’acquisizione. E l’Italia non ha fatto eccezione, soprattutto quando le società acquisite sono state pmi a proprietà familiare, il target principale dei fondi di private equity.
“Spesso in un’acquisizione si tende a trascurare l’impatto che avrà l’operazione a livello psicologico per i manager delle prime linee”, commenta a BeBeez Marianna Vintiadis, responsabile delle attività di Kroll in Italia, Grecia e Austria, che aggiunge: “Si tratta di una variabile davvero importante e posso dire che, in base alla nostra esperienza, 3 casi su 5 di frode hanno un’origine di questo tipo”.
Così, racconta Vintiadis, “ci sono casi di manager che, a seguito di un’acquisizione, si ritrovano demansionati rispetto al precedente ruolo in azienda. Per esempio chi prima faceva il direttore generale nell’azienda acquisita e non è più dg nella nuova realtà, perché il dg sarà il suo collega che ha acquisito. E’ un classico. In molti casi questa situazione porta il manager in questione a provare rancore, magari perché ha lavorato per anni in maniera completamente dedita all’azienda e adesso si sente come tradito. La risposta in alcuni casi è che quel manager lascia l’azienda e inizia a fare concorrenza sleale in maniera più o meno nascosta, con danni importanti per l’azienda acquisita. In alcuni casi potrebbe trafugare informazioni e software”.
Un altro caso si ha quando chi compra decide di rinnovare tutte le prime linee di management. In questo caso, dice ancora Vintiadis, “l’imprenditore che ha venduto e che magari mantiene una minoranza nella società, si preoccupa del futuro di questi manager che con lui sono stati corretti e fedeli per anni e quindi li aiuta a costruire un business loro, nello stesso settore che ovviamente in concorrenza con quello originario. Anche in questo caso, formalmente potrebbe non esserci nulla di illegale, se per quei manager non esiste un patto di non concorrenza, con l’azienda che lasciano. A volte però l’aiuto da parte dell’imprenditore è eccessivo, pur se comprensibile da un punto di vista umano, e spinge sino a valicare la soglia dell’illegalità con il passaggio di informazioni e brevetti”.
Poi ci sono i casi in cui l’imprenditore si pente degli accordi stretti con gli investitori al momento dell’investimento, che spesso prevedono che l’imprenditore si ricompri la quota dal fondo al momento del disinvestimento o che segua il fondo nella cessione del 100% dell’azienda. “Di fronte a una crescita del business, successiva all’ingresso di un fondo di private equity nel capitale della sua azienda, a un tasso ben superiore a quello ipotizzato in sede di piano industriale, può accadere che l’imprenditore si arroghi tutto il merito di quella crescita e che quindi non ritenga giusto dover ricomprare dal fondo la quota ceduta tempo prima a una valutazione molto più alta. In sostanza, pensa l’imprenditore, se questa azienda è cresciuta così tanto in questi ultimi anni è grazie a me. Il fondo ha messo dei soldi e basta e non è giusto che adesso si porti a casa un guadagno così grande”. E allora? “L’ìmprenditore si adopererà per gonfiare i costi di gestione in modo tale da tenere a freno la reale crescita di redditività dell’azienda fino al momento dell’uscita del fondo”, conclude Vintiadis, sottolineando che, “paradossalmente nell’imprenditore scatta un comportamento nei confronti del fondo che è molto lontano dall’ottica capitalista e molto vicino a quella dell’operaio: sono io che lavoro e quindi sono io che devo guadagnare, non chi mette il capitale”.
Poi certo, ci sono i casi in cui gli imprenditori che vendono hanno un atteggiamento fraudolento sin dall’inizio, “per esempio quando falsificano i dati di crescita della redditività sulla base dei quali viene costruito il piano industriale degli anni successivi all’investimento”.
Per evitare di incorrere in queste situazioni non c’è nulla da fare che indagare preventivamente su manager e imprenditori delle aziende target delle acquisizioni. “Nella nostra esperienza sappiamo che se una persona si è comportata in modo fraudolento o non lineare una volta, quasi certamente lo rifarà. A volte basta davvero semplicemente informarsi sul passato delle persone, ma molto spesso gli investitori italiani non lo fanno. Nel mondo anglosassone, invece, i principali fondi per statuto sono tenuti a condurre una due diligence anche sul management, che sia nella forma di corproate intelligence. Il senso è cercare di capire con chi si ha a che fare”. Evidentemente, però, bisogna sapere che cosa chiedere e dove investigare. “Per quanto ci riguarda, sappiamo che il nostro metodo funziona. Ogni volta che siamo stati chiamati per indagare su una frode aziendale, in un’azienda per la quale avevamo condotto una due diligence su manager e imprenditori, il risultato di quella due diligence per noi era stato negativo. Per contro, non ci è mai capitato di indagare su frodi in aziende per le quali avessimo rilasciato pareri positivi sui manager e sugli imprenditori”, ha concluso Vintiadis.
Le frodi finanziarie in Italia rappresentano il 19% dei casi sui quali Kroll ha indagato nel 2014, un dato superiore al 9% medio rilevato a livello mondiale. Le frodi più comuni, però, sono quelle perpetrate da fornitori, distributori e uffici acquisti (25% dei casi) e quelle derivanti da conflitti di interesse (25%). I dati sono contenuti nell’ultimo Global Fraud Report pubblicato da Kroll, da cui emerge che complessivamente nel 2014 il 69% delle aziende nel mondo ha subito una perdita finanziaria a causa di una frode. Il furto di beni fisici è la tipologia più comune (22%), seguita dalle frodi compiute da venditori, fornitori o responsabili acquisti (17%) e dai furti di informazioni (15%).