Aifi ha inaugurato ieri il suo ufficio di Londra presso la sede di BonelliErede di Cannon Street, alla presenza dell’ambasciatore italiano a Londra Pasquale Q. Terraciano (scarica qui il comunicato stampa). Una scelta che, indipendentemente dal rischio Brexit, resta valida.
L’annuncio è stato anticipato domenica 12 giugno dalla pubblicazione di un lungo articolo sul Financial Times in cui Alessandra Bechi, responsabile del tax&legal di Aifi, ha sottolineato che l’ultima circolare dell’Agenzia delle Entrate in tema di buyout (si veda altro articolo di BeBeez) è stata un buon segno, ma che ci sono ancora una serie di passi da fare per permettere all’Italia di attrarre investimenti dai fondi esteri e che per questo motivo Aifi ha scritto all’Agenzia delle Entrate chiedendo dei chiarimenti. L’Agenzia inconterà Aifi su questo tema nelle prossime settimane.
La circolare delle Entrate ha sancito infatti la legittimità delle operazioni di merger leveraged buy out (Mlbo), che si configurano cioè quando una newco acquisisce, indebitandosi, il controllo o la totalità del capitale di una società target e poi si fonde con quest’ultima, portando con sé quindi anche il debito. Tuttavia, Aifi a suo tempo ha appunto sottolineato che “restano da chiarire alcuni aspetti relativi al trattamento fiscale dei fondi esteri” e il presidente Innocenzo Cipolletta ha fatto presente che la circolare è sì un passo importante che renderà “maggiormente attrattivo il nostro mercato del private equity”, ma “specie se alcuni aspetti relativi ai fondi esteri verranno ulteriormente chiariti”. In particolare il punto incriminato si trova al paragrafo 3.4 della circolare, che crea incertezza e preoccupazione in merito al trattamento fiscale da riservare alle distribuzioni di dividendi dal target italiano e ai capital gain in caso di realizzo dell’investimento (si veda altro articolo di BeBeez).
Tornando all’inaugurazione degli uffici londinesi di Aifi, il corner vuole essere un ponte con la comunità finanziaria internazionale, aiuterà a raggiungere gli investitori istituzionali mettendoli in contatto con i soci Aifi e sarà un’antenna su ciò che accade nel mondo del venture capital e delle startup inglesi. Il corner Aifi sarà anche punto di appoggio per le iniziative di VentureUp, portale Aifi lanciato a novembre 2015 che vuole essere utile strumento per fornire informazioni sulla filiera del venture capital in Italia e permettere a chiunque abbia un buon progetto innovativo, di caricarlo direttamente nel marketplace così che possa essere visionato ed eventualmente finanziato dai venture capital.
A oggi sono già 24 i soci Aifi basati a Londra o che hanno un ufficio nella capitale inglese oltre al fatto che il 51% dei capitali raccolti in Italia provengono da questa piazza finanziaria. “Londra è una città fondamentale per chi opera nel mondo della finanza o cerca potenziali investitori per la propria attività”, ha commentato il presidente dell’Associzione, Innocenzo Cipolletta. Aifi è la prima associazione di categoria nell’ambiente finanziario a sbarcare a Londra e al momento non sono presenti altri progetti similari, avviati dalle altre national venture capital association.
Ma che potrebbe succedere al private equity italiano in caso di Brexit? Aifi, in un lungo articolo di Private Capital Today nelle scorse settimane ha spiegato che, se il prossimo 23 giugno i cittadini britannici dovessero decidere di uscire dall’Unione europea, alcuni operatori potrebbero iniziare a prendere le necessarie contromisure senza attendere la formalizzazione di un accordo conclusivo tra Regno Unito e Consiglio europeo. Fondi e gestori con base in Gran Bretagna potrebbero in particolare ricorrere al passaporto Aifmd per i Paesi terzi oppure dotarsi di società basate in Unione europea con delega a operare in Regno Unito
Il settore del private equity fonda la propria attività sulla libera circolazione dei capitali e sui passaporti Ucits, Mifid2 e Aifmd. Se è vero che, anche in caso di Brexit, la libera circolazione dei capitali non sarà a rischio, i passaporti, definiti per le attività di fundraising, commercializzazione, gestione e deal structuring, non saranno più disponibili per i private equity britannici, per lo meno non con le attuali modalità.L’impatto sul settore potrebbe essere rilevante se, al contempo, la libera circolazione dei servizi subisse delle limitazioni e l’applicazione di un passaporto come Paese terzo venisse negata oppure avesse tempi di realizzazione eccessivamente lunghi.
Per la Gran Bretagna e per le imprese di servizi finanziari dei Paesi terzi, avere un soggetto in Regno Unito autorizzato ai sensi di una delle direttive europee sul mercato unico significa poter contare su un accesso diretto al mercato europeo. Potersi avvalere di un passaporto rappresenta uno dei maggiori benefici per le imprese di servizi finanziari in Europa, dal momento che ciò significa che, in relazione a specifici servizi, è richiesto un unico soggetto autorizzato per accedere ai mercati in altre giurisdizioni Ue, con risparmi significativi in termini di costi iniziali associati al regime di autorizzazione e di costi di gestione, ma anche in termini di requisiti di capitale.
Poter usufruire dei diritti connessi a un passaporto, inoltre, permette agli esterni di operare in condizione paritaria rispetto ai soggetti già stabiliti nel contesto Ue, al netto delle persistenti difficoltà in materia di armonizzazione dei regimi legati ai vari passaporti. I gruppi che forniscono servizi basati al di fuori dell’Ue non beneficiano dei diritti collegati al passaporto. Spesso, quindi, scelgono di usare il Regno Unito per stabilire il proprio quartier generale europeo, dando vita a una controllata di diritto inglese attraverso cui operare anche in altri Stati membri tramite passaporto.
Ad esempio, un gran numero di gruppi bancari internazionali si dota di un soggetto bancario in Regno Unito con varie ramificazioni nel resto d’Europa. Proprio in ragione di ciò, assume centrale importanza riuscire a comprendere se, in caso di Brexit, il regno Unito sarà ancora in grado di assicurare i diritti legati al passaporto (e questo dipenderà solamente dagli accordi che Unione europea e Gran Bretagna stringeranno nel negoziato successivo al voto). L’assenza di diritti collegati ai passaporti comporterebbe la necessità per le imprese di servizi finanziari (britanniche e non) di ripensare la propria struttura, dal momento che le imprese con attività in territorio europeo dovranno dotarsi di un’altra struttura sussidiaria in Ue per accedere al mercato unico e, in alcuni casi, dovranno anche mantenere in vita la propria struttura in Regno Unito, se conducono attività anche lì.
Tutti i gestori con base in Gb che ricadono all’interno del perimetro della direttiva Ucits e che svolgono le proprie attività all’interno dell’Ue con Brexit perderanno i diritti legati passaporto. Saranno quindi costretti a trasferire la gestione dei fondi a gestori terzi stabiliti all’interno dell’Unione europea e a operare come investment manager delegati del fondo, con relativo assoggettamento ai controlli e alle restrizioni che la delega prevede ai sensi della direttiva Ucits.
La direttiva sui gestori di fondi alternativi (Aifmd) ha introdotto un quadro comune europeo che ha permesso ai manager di beneficiare del passaporto, riuscendo così a entrare in contatto con gli investitori professionali europei senza dover ricorrere ai regimi nazionali di private placement. Se il Regno Unito lasciasse la Ue, è molto probabile che le autorità britanniche decideranno di ridurre il peso dei requisiti Aifmd o di rendere opzionale il regime di piena conformità alla direttiva. In tal caso i gestori britannici potrebbero trovare, almeno all’inizio, meno complicato gestire o commercializzare fondi non Ue che, a quel punto, comprenderebbero anche quelli britannici.
In ogni caso, perderebbero il loro passaporto per gestire e commercializzare fondi Ue; ciò significa che, come per i gestori Ucits, avranno bisogno di stabilire un nuovo gestore (o stabilire una relazione con uno già esistente) in uno Stato membro, passare la gestione del fondo Ue al nuovo gestore e offrire la gestione delegata o servizi di advisory soggetti alle restrizioni della delega previste dalla Aifmd. Inoltre, sul fronte della commercializzazione, non solo i regimi nazionali di private placement sono molto restrittivi o addirittura indisponibili in diversi Stati membri, ma anche il processo di implementazione del regime di commercializzazione ai sensi della Aifmd non è ancora completo.
Ai sensi della Aifmd sarà infatti introdotto un passaporto per i gestori autorizzati (inclusi i gestori dei paesi terzi che hanno optato per la Aifmd). Tale regime, tuttavia, si applicherà solamente se sia il gestore sia il fondo si trovano in una giurisdizione approvata e definita come ‘equivalente’ e il gestore non Ue passi attraverso tutte le fasi dell’autorizzazione in uno Stato membro di riferimento. Fino ad ora, questo processo è stato estremamente lento e il passaporto non è ancora disponibile neanche per quei gestori che provengono da Paesi considerati ‘equivalenti’.
Il piano della Aifmd prevede, inoltre, che i regimi nazionali di private placement saranno progressivamente rimossi e i gestori non-Ue potranno commercializzare all’interno dell’Unione europea optando per l’Aifmd e usando il relativo passaporto. Il risultato è che, anche se il regime Aifmd non potesse essere più utilizzato in Regno Unito, i gestori britannici dovrebbero optare per la Aifmd per poter commercializzare all’interno del contesto comunitario. Considerando i tempi del processo di implementazione, ciò non può essere considerato come un elemento sicuro. Inoltre, la Aifmd dovrà essere rivista a partire dal 2017; un processo che potrebbe includere delle modifiche verso i Paesi terzi in un contesto in cui il Regno Unito rischia di trovarsi nel pieno dei negoziati per la sua uscita, anziché operare come attore interno alla Ue che si schiera e supporta le posizioni dei Paesi terzi.