“Una preoccupazione che abbiamo è la capitalizzazione delle società italiane. Stiamo guardando a questo problema proprio adesso con quelle che abbiamo definito pmi innovative a cui abbiamo esteso gli incentivi fiscali per le start-up”, ha detto ieri a Milano Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del ministro delle Finanze, nel corso di una conferenza sul tema degli investimenti del private equity organizzata in Università Bocconi in collaborazione con Goldman Sachs. “Ci piacerebbe che il private equity in senso ampio guardasse a questa specifica categoria di società”, ha aggiunto Pagani.
Che le società italiane siano sottocapitalizzate non è un mistero. Anche l’ultima relazione della Banca d’Italia ha dedicato ampio spazio alla questione (si veda altro articolo di BeBeez), mentre sul tavolo del ministero dell’Economia stanno arrivando da banche d’affari, avvocati e consulenti una serie di proposte in tema di incentivi agli investimenti nel capitale d’impresa, sulla falsariga di quanto già fatto negli ultimi tre anni per stimolare lo sviluppo di un mercato del debito alternativo al sistema bancario.
L’esperienza su quest’ultimo fronte, infatti, è stata molto interessante e anche nuova per l’Italia, perché la collaborazione tra addetti ai lavori e ministero dello Sviluppo Economico, da un lato, e ministero dell’Economia, dall’altro, è stata molto stretta.
Sul fronte dello stimolo agli investimenti in equity, invece, l’unico segnale arrivato sinora è stata l’introduzione, con il decreto Salva-Italia, dello strumento dell‘Ace (Aiuto alla crescita economica), che prevede la possibilità per le imprese di dedurre dal reddito netto una percentuale degli utili reinvestiti o dei nuovi capitali investiti in azienda dai soci. Tuttavia non sono state previste sinora norme che incentivino gli investitori terzi a capitalizzare le piccole e medie imprese.
Si è pensato, è vero, alle start up e alle pmi innovative. Per le persone fisiche e giuridiche sono infatti previsti incentivi fiscali sia nel caso di investimenti diretti sia nel caso di investimenti indiretti, per il tramite di organismi di investimento collettivo del risparmio o altre società di capitali che investono prevalentemente in startup, con il beneficio fiscale che viene correlato ai conferimenti in denaro effettuati sia in sede di costituzione della startup innovativa, sia in sede di aumento del capitale sociale in caso di startup o di pmi innovative già costituite (si veda altro articolo di BeBeez).
Per contro, nulla di simile è ancora stato studiato in relazione agli investimenti nel capitale di imprese tradizionali. Ed è su questo fronte che, come riferito da MF-Milano Finanza sabato 23 maggio, banche e avvocati si stanno battendo.
D’altra parte, che la strada degli incentivi fiscali sia quella più diretta per indirizzare gli investimenti lo si è visto sul fronte del debito: indubbiamente il mercato dei minibond si è aperto e l’interesse dei fondi di credito e di altri investitori istituzionali esteri per il finanziamento delle pmi italiane è evidente..
Ebbene, anche sul fronte dello sviluppo degli investimenti in equity delle pmi la strada potrebbe essere quella di un Fisco benevolo. Francesco Guelfi, partner del dipartimento Tax di Allen & Overy, ha spiegato a MF-Milano Finanza che “l’Ace ben venga, ma non basta. Interessante sarebbe la cosiddetta super-Ace, per le aziende che deliberano aumenti di capitale da sottoscriversi tramite quotazione in borsa. Al momento su questo fronte tutto è sospeso perché la Commissione Ue ne sta rivedendo la struttura, per assicurarsi che la norma non ricada tra gli aiuti di Stato. In ogni caso, ancora meglio sarebbe una qualche norma che renda fiscalmente convenienti le aggregazioni tra pmi, meglio ancora, se in vista di una successiva quotazione. Un esempio potrebbe essere l’affrancamento gratuito dei maggiori valori iscritti in conseguenza di un’aggregazione e l’ammortamento breve, ai fini fiscali, dell’avviamento (per esempio in 5 anni) invece che in 18 anni come attualmente previsto». La norma avrebbe impatto limitato per il bilancio dello Stato, visto che nel momento in cui due aziende si aggregano, auspicabilmente lo fanno per creare sinergie che a regime porteranno a un aumento di ricavi e margini di profitto, quindi di utili e in ultima analisi di gettito per lo Stato.
“Sempre lungo questa linea”, ha aggiunto Guelfi, “si potrebbe in alternativa pensare a una tassazione agevolata per la quota di extrareddito creata successivamente all’aggregazione delle due realtà. Mi spiego. Se inizialmente due pmi producono utili per 100 euro ciascuna e con l’aggregazione arrivano a 250, allora la quota di 50 potrebbe essere tassata a un’aliquota più bassa per un certo numero di anni. Oppure, a godere dell’aliquota agevolata potrebbe essere una quota degli utili calcolata sull’incremento del patrimonio netto. Infine, tornando sulla questione della quotazione, un’altra idea potrebbe essere quella di rendere immediatamente deducibili nell’anno (anziché negli attuali cinque) le spese direttamente riconducibili alla quotazione, o di concedere un credito d’imposta su tali spese e su quelle ricorrenti legate alla quotazione stessa, come le fee da pagarsi a Borsa, Consob, i costi di conversione ai principi contabili IAS e una quota dei costi della struttura di investor relation”.
E a chi dice che per lo Stato simili misure si tradurrebbero in minore gettito, Guelfi risponde che «probabilmente senza quelle misure il gettito non ci sarebbe proprio, visto che ogni anno in Italia sono pochissime le aziende che si quotano come pochissime sono le aggregazioni aziendali. Per il governo si tratta di bruscolini mentre per il mercato sarebbero iniziative importanti”.