C’è un gran pour-pourì tra le startup fintech che intermediano online capitali e finanziamenti alle imprese o ai privati in Italia. Il settore, infatti, è regolamentato soltanto sul fronte dell’equity crowdfunding, per la quale ci sono riferimenti di legge (si vedano le modifiche al Testo Unico della Finanza introdotte nel gennaio 2015 con l’Investment Compact) e un apposito regolamento Consob, da poco rinnovato proprio per tenere conto delle ultime novità di legge. Per contro, il cosiddetto social lending in Italia non ha una normativa di riferimento precisa. Per cui al momento tutto è lasciato alla libera interpretazione dei protagonisti del settore delle norme contenute nel Testo Unico Bancario. A breve, però, è atteso un aggiornamento delle disposizioni di vigilanza di Banca d’Italia, in tema di raccolta del risparmio dei soggetti diversi dalle banche. Le novità riguardano un ambito ben più ampio di quello del social lending, che però viene incluso chiaramente come oggetto della revisione (si veda un approfondimento nel Report di BeBeez sul fintech).
Tra piattaforme di equity crowdfunding e di lending di vario tipo attive in Italia, considerando anche le piattaforme che intermediano capitale e credito, arriviamo a contare una trentina di startup fintech, di cui due estere. Di queste, ben 19 sono attive nell’equity crowdfunding (attive nel senso che sono iscritte nell’albo Consob, ma non necessariamente che sono già operative), quattro sono focalizzate sui prestiti tra privati (Smartika, Prestiamoci, Younited Credit e Soisy), una sui prestiti da privati a imprese (Borsa del Credito) e una (iBondis) sui prestiti da investitori istituzionali a imprese (ma presto potranno investire anche i privati professionali). Il panorama è poi completato da una società specializzata nell’intermediazione online di fatture (Workinvoice) e da una (Insta Partners), che, una volta operativa, comprerà lei stessa fatture. Ci sono poi due piattaforme che mettono in contatto domanda e offerta di capitale di rischio (startup da un lato e privati dall’altro) che però poi lasciano gli interessati concludere offline l’operazione, che comunque facilitano organizzando anche workshop di incontro tra le società in cerca di capitale e i potenziali investitori (SiamoSoci e BacktoWork24). Su questo fronte anche U-Start può essere inserita nell’elenco, visto che organizza club deal di coinvestimento in startup di tutto il mondo per gli iscritti alla propria community molto selezionata, composta solo da note famiglie di imprenditori o family office. Infine c’è una piattaforma che è una sim totalmente fintech dedicata a far incontrare investitori istituzionali con pmi (Epic sim).
Dalla lettura del testo pubblicato da Banca d’Italia per la consultazione (che si è chiusa il 18 gennaio scorso) emerge che, se il testo sottoposto a consultazione venisse emanato, “l’attività di gestore di un portale di social lending non costituirebbe raccolta di risparmio tra il pubblico e, a certe condizioni, potrebbe essere posta in essere da istituti di pagamento, istituti di moneta elettronica e intermediari finanziari autorizzati a prestare servizi di pagamento”, hanno commentato a MF Milano Finanza in edicola da sabato 14 maggio Paolo Carrière, responsabile del dipartimento Regulatory and Banking, e Anna Maria Pavone, di Cba Studio Legale e Tributario.
Allo stato delle cose, quindi, molte piattaforme risulterebbero già in regola. Emanuela Campari Bernacchi, partner del dipartimento di Debt Capital Market di Legance-Avvocati Associati ha infatti precisato a MF Milano Finanza che “la maggior parte delle piattaforme di P2P lending oggi operative sono degli Istituti di pagamento ai sensi e per gli effetti del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, che ha recepito in Italia la Direttiva 2007/64/CE sui servizi di pagamento nel mercato interno. Il servizio di pagamento è offerto dall’operatore come esecuzione di un ordine di pagamento da un pagatore a favore di un beneficiario per le finalità più disparate (a titolo esemplificativo, dal pagamento di una bolletta o utenza all’accredito dello stipendio)”.
Le cose cambiano quando si parla di acquisto diretto di crediti o più precisamente di fatture, come è il caso di InstaPartners, che acquisterà fatture, le cartolarizzerà e collocherà i titoli abs presso investitori istituzionali. Per questa attività la società si sta strutturando come intermediario finanziario ex articolo 106 del Testo Unico Bancario, perché si tratterà di un’attività di vera e propria erogazione di credito alle imprese, che viene riservata solo alle banche, agli intermediari finanziari, ai veicoli di cartolarizzazione, alle assicurazioni, ai fondi di investimento alternativi europei e alle agenzie di recupero crediti.
Tutt’altra storia è invece quella delle piattaforme che intermediano il credito verso le imprese, come Workinvoice, piattaforma italiana che tratta fatture tramite un meccanismo d’asta online cui partecipano investitori istituzionali e privati. Su questo tipo di attività il terreno rischia di essere un po’ scivoloso. Da un lato c’è chi ritiene che non ci sia alcun obbligo autorizzativo cui uniformarsi. “In Italia questo tipo di attività non è sottoposto ad alcuna regolamentazione in quanto non è considerata attività riservata”, dice Emanuela Campari Bernacchi. “Invece nel Regno Unito questo tipo di attività viene allineato a quello delle piattaforme di P2P lending che sono sotto il controllo di vigilanza della Fca”. Non a caso iBondis, piattaforma dedicata al finanziamento di pmi europee, con sede legale a Londra, è appunto un intermediario finanziario autorizzato dalla FCA britannica, che in Italia opera come soggetto vigilato dalla Consob e iscritto nell’Elenco delle Imprese di investimento senza succursale.
Dall’altro lato, c’è invece chi ritiene che anche nel caso di pura intermediazione di fatture una qualche autorizzazione ci voglia e in particolare che la società che intermedia sia iscritta all’albo dei mediatori creditizi. “L’attività sembra rientrare tra quelle riservate al mediatore creditizio ex art. 128-sexies TUB. Il mediatore creditizio è il soggetto che mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari previsti dal Titolo V TUB con la potenziale clientela per la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, dicono da CBA.
Quanto ai marketplace che supportano i privati nell’accesso alle start-up e ad altri asset non quotati, essi non devono richiedere alcun tipo di autorizzazione. “I marketplace che supportano i privati nell’accesso a start-up e altri asset non quotati non devono richiedere alcun tipo di autorizzazione. A oggi i business angel o comunque i privati interessati a investire in capitale di aziende non quotate, con l’aiuto di vari esperti nel settore, possono navigare attraverso le piattaforme e consultare i vari progetti su cui eventualmente investire, senza che la piattaforma debba essere strutturata come intermediario, sempre che poi l’eventuale conclusione dell’investimento avvenga offline e venga direttamente condotta tra le parti coinvolte”, aggiunge la partner di Legance.
In sostanza, precisa Campari Bernacchi, “se la piattaforma in questione non svolge alcun servizio di investimento di cui all’articolo 1 comma 5 del TUF e in particolare, il servizio ricezione e trasmissione di ordini e il servizio di collocamento, non ha necessità di qualificarsi quale banca o impresa di investimento e quindi non c’è necessità di richiedere l’iscrizione nell’albo degli intermediari finanziari ex articolo 106 del Testo Unico bancario”.
E se anche l’attività evolvesse in una più complessa “consulenza alle imprese in cerca di capitali, questa non rientrerebbe tra i servizi di investimento e quindi non andrebbe svolta da intermediari autorizzati”, confermano da Cba, avvertendo però che, “se la consulenza risultasse prestata a soggetti che intendono investire nell’equity delle imprese, allora si configurerebbe una attività di consulenza in materia di investimenti”. Il che significa che sarebbe meglio strutturarsi almeno come sim di consulenza.
Molto leggeri, infine, gli obblighi autorizzativi per i gestori di piattaforme di equity crowdfunding, che per esercitare l’attività devono soltanto essere iscritti nel registro ordinario Consob (oppure speciale, se la piattaforma è gestita da intermedi finanziari). In cambio di questa agilità, però, sottolineano da CBA, “i gestori delle piattaforme non possono detenere somme di denaro di pertinenza degli investitori né eseguire direttamente gli ordini per la sottoscrizione degli strumenti finanziari offerti sui propri portali. Inoltre i gestori sono tenuti a trasmettere gli ordini riguardanti la sottoscrizione e la compravendita di strumenti finanziari rappresentativi di capitale esclusivamente a banche e imprese di investimento”.