“Se non si vuole il Far West occorrerà procedere a regolamentare i nuovi fenomeni», aveva detto il presidente di Consob Giuseppe Vegas lunedì 8 maggio in occasione della relazione annuale della Commissione (scarica qui il discorso di Vegas). E, aveva aggiunto, “ciò dovrà avvenire in modo graduale e proporzionato, per accompagnare le nascenti imprese nel loro sviluppo attraverso norme specifiche, via via più stringenti in funzione della crescita dimensionale e degli occupati”.
Dichiarazioni che il popolo del fintech ha accolto da una parte con favore, visto che Consob ha sottolineato l’importanza del settore, ma dall’altra non è piaciuto per nulla il fatto che Vegas abbia parlato di Far West del fintech in Italia. MF Milano Finanza ha raccolto le risposte a caldo dei fondatori di alcuni delle principali startup fintech italiane che hanno sottolineato che nella realtà il fintech è già sottoposto a una stringente regolamentazione, perché per offrire servizi fintech il minimo che viene richiesto è che la start-up si attrezzi per essere un istituto di pagamento o un istituto di moneta elettronica.
Meglio ancora, in alcuni casi, che sia addirittura un intermediario finanziario iscritto all’albo unico (si veda altro articolo di BeBeez). In ogni caso si tratta di soggetti vigilati dalla Banca d’Italia e proprio l’istituto di via Nazionale nei mesi scorsi ha pubblicato un regolamento ad hoc sul social lending, che chiarisce questi concetti (si veda altro articolo di BeBeez).
L’unica eccezione è quando si tratta di equity crowdfunding. Perché in quel caso alla start-up basta essere iscritta nell’apposito registro Consob, ma poi comunque la piattaforma deve occuparsi di espletare gli obblighi relativi alla direttiva Mifid sui servizi finanziari (si veda altro articolo di BeBeez).
“Non è vero che questo settore non è regolato”, ha detto a MF-Milano Finanza Ignazio Rocco di Torrepadula, fondatore di Credimi, piattaforma di investimento in fatture emesse da pmi, che spiega: “Siamo assolutamente regolati e personalmente per lanciare Credimi ho dovuto raccogliere capitali importanti e iscrivere la società all’albo unico degli intermediari finanziari di Banca d’Italia. Infine non è vero che il settore è poco trasparente. Le transazioni sono tracciate a tutti i livelli e le spiegazioni dei rischi ai quali gli investitori vanno incontro sono molto chiare ed evidenti, molto più efficaci di quanto non siano i faldoni di carta consegnati da banche e assicurazioni ai clienti che devono sottoscrivere degli strumenti finanziari”.
Antonio Lafiosca, fondatore di Borsa del Credito, startup specializzata nell’intermediazione online di finanziamenti a pmi, ha spiegato che la sua società “è contemporaneamente vigilata dalla Banca d’Italia come istituto di pagamento autorizzato alle attività di social lending e dall’Organismo degli agenti e mediatori come mediatore creditizio. Inoltre a strettissimo giro, con l’avvio delle attività con gli istituzionali, sarà vigilata oltre che dagli organismi citati anche dalla stessa Consob. Siamo soggetti alle stesse regole di trasparenza bancaria, regolamenti di vigilanza e antiriciclaggio di qualsiasi intermediario finanziario”. Lafiosca ha aggiunto che, “al contrario di quanto si potrebbe pensare, soffriamo di un inadeguato coordinamento delle attuali normative sugli aspetti regolamentari, di sperequazioni ingiustificate sugli aspetti fiscali e di mancanza di accesso alle agevolazioni di stato”.
Sulla stessa linea d’onda anche Alberto Dalmasso, cofondatore di Satispay, startup che consente di effettuare pagamenti tramite lo smartphone con diretto addebito sul conto corrente. “Nessuno può lavorare in questo settore senza essere vigilato”, ha detto Dalmasso. “Se tocchi il denaro che transita sui conti correnti bancari devi per forza essere sottoposto alla vigilanza di Banca d’Italia. Per quanto ci riguarda, Satispay è un istituto di moneta elettronica e gli obblighi ai quali è sottoposta sono praticamente identici a quelli di un intermediario finanziario. Con la sola differenza che, almeno da un punto di vista formale, abbiamo bisogno di un capitale più ridotto, perché bastano 350 mila euro. Tuttavia nella realtà di capitali ce ne vogliono ben di più, perché le autorità di vigilanza vogliono essere tranquille circa il fatto che, qualunque cosa accada, la società sia in grado di far fronte ai propri impegni. E poi il fintech necessita di investimenti importanti in tecnologia per poter essere affidabile”.
Unica voce fuori dal coro è quella di Matteo Tarroni, cofondatore di Workinvoice, piattaforma di intermediazione di fatture emesse da piccole e medie imprese, che ha scelto di non essere soggetto vigilato. D’altra parte la piattaforma non investe direttamente né gestisce il denaro degli investitori. “Quando è stato pubblicato il regolamento di Banca d’Italia sul social lending, abbiamo chiesto ai nostri legali di analizzarlo a fondo per capire se questo avrebbe cambiato qualcosa per noi, ma non abbiamo avuto indicazione in questo senso”, ha spiegato Tarroni. “Noi non siamo istituto di pagamento, ma ci appoggiamo a un istituto di pagamento terzo per fare i bonifici ai nostri clienti”. È per questo che Tarroni dice che “le dichiarazioni di Vegas non sono così male; in fondo sta dicendo che il fintech va regolato, ma che va dato al settore il tempo e l’opportunità di partire per gradi senza pregiudicarne lo sviluppo”.
E anche l’altro punto sollevato da Vegas non ha trovato d’accordo il fintech. “Il fenomeno (quello del fintech, ndr), attualmente poco visibile, è destinato a esplodere nel giro di pochi anni. Esso potrebbe porre problemi drammatici di tenuta del sistema delle banche, se queste non riusciranno ad adattarvisi rapidamente. La rete del fintech si muove in una sorta di limbo regolamentare che ne favorisce l’azione. Esattamente il contrario di quanto avviene nel tradizionale settore creditizio, appesantito da una massiccia regolamentazione, stratificata nel tempo”, aveva detto Vegas e Tarroni ribatte: “Le banche non spariranno per colpa del fintech. Anzi, il fintech ha bisogno delle banche”. Lo stesso concetto viene sottolineato da Rocco di Torrepadula: “Non credo che le banche tradizionali scompariranno. Le banche hanno sempre inglobato le nuove tecnologie, se ne fanno forti e si trasformano con loro”. L’alternativa, peraltro, è appunto quella di perdere delle opportunità importanti aperte grazie alla Payment Services Directive 2, la seconda direttiva Ue sui servizi di pagamento, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Ue a fine 2015 e che dovrà essere recepita da tutti gli stati membri entro il 13 gennaio 2018, lascaindo quell’opportunità soltanto alle startup fintech (si veda altro articolo di BeBeez).
Transazioni tracciate. C’è poi un’altra questione da affrontare quando si parla di limbo o di Far West del settore; le transazioni digitali sono tutte tracciate, quindi i rischi di non intercettare operazioni di riciclaggio e di evasione sono praticamente nulli. Ma nella realtà questo concetto non è preso in considerazione dalla normativa italiana. “Il mondo del fintech italiano è costretto a competere in condizioni di svantaggio rispetto ai concorrenti europei poiché le nostre norme nazionali di attuazione della disciplina comunitaria non tengono adeguatamente conto delle esigenze della identificazione a distanza attraverso processi online. Si tratta di una disciplina vecchia, basata sulla carta e sull’identificazione allo sportello, peraltro meno sicura e affidabile di quanto si potrebbe fare digitalmente”, ha detto a MF-Milano Finanza Alessandro Lerro, partner di CrowdAdvisors e presidente di Aiec, l’associazione delle piattaforme italiane di equity crowdfunding.
Nodo-antiriciclaggio. Le attività di adeguata verifica della clientela ai fini antiriciclaggio e di prevenzione del terrorismo sono disciplinate in Italia da una legge nazionale e dai regolamenti della Banca d’Italia, che sono molto più rigidi di quanto previsto dalla normativa comunitaria. Uno degli oneri più rilevanti è quello della compilazione dell’Archivio Unico Informatico, nel quale deve essere riportate alcune informazioni, che per le persone fisiche sono molte, ma per le società sono veramente tantissime. Tutte informazioni che sarebbero già disponibili nel Registro delle Imprese ma che invece devono essere inserite ex novo nella modulistica e riportate nell’Archivio Unico. Un’attività quindi inutile, ma che consuma molto tempo e quindi denaro. Peraltro la normativa sta cambiando, ma si è appreso in via informale che l’Archivio Unico non verrà realmente abolito come invece si immaginava. Se hanno un regime regolamentare più semplice e meno costoso, gli intermediari di altri Paesi appartenenti all’Unione Europea possono venire a competere sul mercato tricolore tramite il passaporto europeo, cioè attraverso un’autorizzazione che viene concessa dalla loro autorità di vigilanza. Di fatto in questo momento due istituti di pagamento francesi (Lemonway e Mango Pay) stanno occupando rilevanti spazi di mercato in Italia tra le piattaforme di crowdfunding e quelle di lending.
Nodo codice fiscale. “In Italia non c’è una normativa per permetta alle società fintech di internazionalizzarsi; non a caso abbiamo deciso di aprire una sede a Londra, perché vogliamo servire anche utenti stranieri ma dall’Italia nella pratica non possiamo farlo”. Lo ha detto ancora Dalmasso di Satispay, che ha aggiunto: “Chiunque sottoscriva un contratto di natura patrimoniale in Italia deve fornire un codice fiscale italiano al fornitore, il che certo non è impossibile ma richiede un impegno da parte dell’utente, il quale spesso vista l’immediatezza di internet, perde interesse all’operazione e non la fa più. Certo, ora c’è la Brexit, ma ancora per un anno o forse due le cose non per noi non cambieranno e, quando sarà, decideremo di aprire una sede in un altro Paese membro dell’Unione Europea che non ponga i problemi che vengono invece sollevati dall’Agenzia delle Entrate italiana”.