di Fabio Bolognini, cofounder di Workinvoice
(pubblicato su Linkerblog, il 17 novembre 2017)
La bulimia di notizie sulle banche continua. Una nuova ondata di articoli ispirati dalla Commissione Parlamentare sulle banche, sulla svolta negativa di Carige, sedotta e abbandonata dal consorzio di garanzia all’ultimo secondo, riporta la salute del sistema bancario al centro dell’attenzione proprio quando le istituzioni ci avevano quasi convinto che il problema era alle spalle.
Negli ultimi giorni la stampa si è concentrata sullo scontro tra Consob e Banca d’Italia, sull’epilogo doloroso delle due popolari venete, sul maxi-aumento di capitale (quasi 3 volte la capitalizzazione) che Creval ha dovuto varare. Ieri ricompare Carige e poi fiumi di parole sul trattamento dei Npl proposto nella consultazione della Bce con schieramenti che si fronteggiano nell’applauso o nella protesta.
Cosa sta succedendo al nostro sistema bancario nel suo profondo? E’ davvero solo un problema circoscritto a pochi gravi casi o c’è qualcosa di più complesso? Discutere di come trattare i Npl è come guardare al dito o alla luna? Se la crisi italiana ha mandato a gambe all’aria la terza banca italiana (Mps), quattro medie banche popolari che erano nelle prime 15 per dimensione, mette a rischio Carige e Creval e tiene ancora sotto pressione l’ex-Banco Popolare si può continuare a sostenere che si tratta di focolai isolati e che il sistema bancario sia sano?
Se per sano si vuole intendere che non è fallito come Banca Marche, Banca Etruria e le due popolari venete possiamo essere d’accordo. Se invece ‘sano’ significa che è in buona salute allora francamente il giudizio deve essere dubitativo. Un settore sano non registra in massa una contrazione significativa dei ricavi, delle masse di denaro (raccolte e prestate alla clientela), un crollo della redditività che ha generato perdite massicce negli ultimi 6 anni di fila. Quindi possiamo continuare a polemizzare sulle intromissioni della BCE, sul trattamento dei prestiti deteriorati, sull’eccesso di regole ma sono i cosiddetti fondamentali del business bancario che non funzionano più, anche nelle banche considerate non rischiose.
Esattamente quali sono i fattori critici? Senza entrare in tecnicismi poco comprensibili il problema è nei ricavi, nei costi, nella tecnologia, nelle competenze e nella reputazione. L’eccesso di NPL è solo un effetto di problemi strutturali che non hanno trovato contromisure nelle strategie adottate dalla crisi del 2008 in poi.
Ricavi. Le banche italiane generano la quasi totalità dei ricavi da attività con la clientela privata e societaria (società finanziarie, imprese private) e con Stato e Pubblica Amministrazione. Pochi profitti da trading o investment banking in Italia, qualcuno dice per fortuna. I
l calo continuo dei ricavi dalla clientela deriva nel settore privati dallo spread nullo o negativo sui depositi e dalla riduzione dei mutui casa su cui è pesata la situazione del mercato immobiliare ora in ripresa. Il grande calo dei ricavi sulle imprese deriva invece dalla combinazione tra riduzione dei volumi dei prestiti e il calo dei tassi/spread praticati e molte volte troppo bassi. Sul perimetro sempre più ridotto di imprese affidabili si è accesa persino una forte concorrenza basata sul prezzo e non sulla qualità dei servizi. I tassi stabili vicino allo zero derivati dalla politica monetaria della Bce sono stati e saranno una sciagura per tutte le banche perché sui depositi il guadagno rimane nullo o negativo. Sono calate anche le commissioni sui servizi ma meno del margine da interesse. Quando le commissioni sono state aumentate su prodotti bancari base (il conto corrente, i bonifici allo sportello) non è migliorato il rapporto con la clientela; sul collocamento di prodotti assicurativi spesso e volentieri ci sono abbinamenti ai finanziamenti imposti.
Alcuni numeri: i crediti alla clientela delle prime 9 banche (Unicredit, Intesa, Mps, Banco Popolare, UBI, BPER, Bpm, Carige e Creval) sono scesi dal 2010 al 2016 di 228 miliardi pari al 16%, il margine d’interesse totale del 29%, i ricavi totali del 15%. Il totale dei profitti delle 9 banche nel 2010 era di 6,6 miliardi; 6 anni dopo ci sono 14,4 miliardi di perdite (11,3 attribuibili solo a Unicredit). Non ci sono altri settori con questi risultati negativi. Solo le due banche milanesi Intesa e Bpm hanno segnato miglioramenti o cali contenuti.
Costi. Tutti i piani industriali delle banche prevedono ritorni alla redditività grazie a drastici tagli dei costi di cui faranno le spese in primis decine di migliaia di dipendenti, ma anche a tagli trasversali che non facilitano l’investimento in qualità, in relazione con la clientela, nel miglioramento di processi notoriamente bizantini e obsoleti nell’era digitale. Proprio chi è più in crisi e avrebbe bisogno di maggiore cambiamento è costretto a tagliare di più.
Tecnologia. I servizi bancari funzionano grazie ad architetture tecnologiche vecchie, costose, rattoppate e ingestibili in un’epoca di forte e rapida innovazione digitale. Da forte barriera all’entrata di concorrenti le legacy (eredità) informatiche si sono trasformate in un assoluto tallone d’Achille del sistema, esposto all’aggressione di qualsiasi player non bancario che usa tecnologie nuove. E sarà sempre peggio. Difficilissimo abbandonare in poco tempo strutture informatiche che reggono le transazioni quotidiane. Chi ci prova crea una banca nuova (es.Widiba in Mps)
Competenze. Un capitolo spinoso se persino i sindacati dei bancari reclamano a gran voce un cambio di passo diverso dalle attuali prassi fatte di outsourcing e cessione di rami (per liberarsi più rapidamente del personale), di ricambio generazionale (per abbassare il costo unitario per addetto) che non appaiono del tutto coerenti con le ambizioni di maggiore qualità nei servizi e di consulenza. Segnali di questa debacle qualitativa? Molti e diversi, dal disorientamento del personale (in parte dovuto alle pressioni sul collocamento di strumenti finanziari inopportuni) al crollo nell’investimento in formazione, dal turnover esagerato tra filiali, sedi, hub ecc…ma soprattutto dall’opinione della clientela tra sconcerto e disillusione. Considerando l’impatto mortifero dei crediti deteriorati, le competenze non sono state irrobustite -prima del 2008 e per diversi anni anche dopo- nel settore più critico per la banca: la concessione dei crediti e la gestione delle posizioni a rischio.
Oggi è palese che uffici crediti e uffici risorse umane non abbiano saputo vedere per tempo la crisi delle imprese (pur ampiamente prevedibile). Entrambi non hanno suonato l’allarme né preso contromisure tempestive potenziando in misura adeguata i settori che gestivano i crediti problematici, iniettando dosi di formazione su crisi e legge fallimentare nei nuovi specialisti della crisi. Non hanno neppure usato personale amministrativo ‘in esubero’ per ordinare e informatizzare archivi di decine di migliaia di perizie, ipoteche, garanzie e fideiussioni che oggi sono indispensabili per un veloce recupero interno o per le cessioni e cartolarizzazioni. Processi incompleti o del tutto assenti al punto che le banche si sono fatte bacchettare in pubblico anche dalla Banca d’Italia. Quanti errori, quante belle tavole nei piani industriali e quanti pochi risultati. Solo Intesa e Unicredit hanno capito e iniziato a lavorarci seriamente da due anni almeno.
Reputazione. Il danno è fatto: il trasloco silenzioso dei guai bancari sui risparmiatori è stato concesso con il benestare di tutti e ora produce rabbia, l’uso strumentale delle vicende bancarie da parte della politica per motivi di voto peggiorerà le crepe nella reputazione bancaria, danneggiando buoni e cattivi. Chi è causa del suo mal… il sistema ha scelto consapevolmente per anni di non isolare le banche scorrette, il sistema ha pagato con i soldi dati ad Atlante e i versamenti al FITD, il sistema paga il crollo reputazionale.
Eccoci qui, se il problema delle banche fosse solo lo smaltimento di Npl sarebbe più facile: il mercato di sbocco c’è, la benevola Gacs è pronta, ci saranno perdite ma gli utili possono coprire tutto. Invece non ci sono solo Npl e chiunque creda che con queste 5 zavorre il sistema sia in grado magicamente di rigenerarsi, sostenendo da qui in avanti anche le forti pressioni competitive esterne (PSD2, fintech e gli Over-the-Top) chiunque creda possibile ripristinare in breve la redditività sul capitale superiore al costo del capitale dovrebbe ripensare a tutti i precedenti piani falliti. Poi si troverà a commentare altri guasti. Non fa sorridere oggi il ricordo di chi pensava che la fusione Popolare Vicenza-Veneto Banca avrebbe raddrizzato il Titanic veneto?
Tutte le osservazioni critiche sussistono anche in presenza dei miglioramenti nei conti economici trimestrali del 2017 che stanno tornando in nero, più velocemente in alcune grandi banche. Se osservate al microscopio le voci di bilancio gran parte dei miglioramenti sono dettati molto più dalla riduzione degli accantonamenti sui crediti finalmente in calo netto (e sarebbe curioso il contrario) che dalla crescita dei ricavi.
Il calo dell’ingresso di crediti a sofferenza proseguirà anche grazie alla timida primavera economica, documentata recentemente nel rapporto Cerved sulle pmi. I nodi strutturali che affliggono il settore invece restano e rendono la virata verso la redditività perduta se non impossibile molto lenta e complicata. Cercare alibi, trovare nemici a Francoforte (che ha aiutato molto le banche italiane con LTRO, TLTRO e QE) o a Bruxelles serve alla pubblicistica Abi e ai molti giornalisti che sognano la guerra alla Germania e alla Svezia.
I ceo delle banche sanno invece benissimo che gli alibi non possono più mascherare le rughe e il decadimento di un modello di business che persino il regolatore ritiene debba essere stravolto. In questa cornice è scontato che chi è fortemente indebolito (come Carige) ha un destino segnato e ha perso la libertà. Tutti gli altri devono togliersi giacca e cravatta e rimboccarsi le maniche.