A Palazzo Strozzi, al Piano Nobile e alla Strozzina – dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 – una grande panoramica, con oltre 100 opere dell’artista performer Marina Abramovic, la prima volta di una personale al femminile nel palazzo fiorentino, la prima volta di questa artista serba con una personale in Italia, paese che ama molto. Difficile azzardarsi in una recensione: ne hanno parlato e ne parlano tutti, soprattutto per l’evento che rappresenta che continua a fare scandalo: instagram ha bloccato la foto d’ingresso con i due performer nudi a guisa di stipi dell’unica porta d’accesso all’esposizione. Questa tra l’altro la performance che l’ha resa celebre e che le costò l’arrivo della polizia. Al centro il corpo, il suo corpo portato all’estremo, della resistenza, della fatica, del dolore, della provocazione. Inutile qui dire se si tratti di arte e se ci debbano essere dei confini, dei limiti. Marina rappresenta un punto di non ritorno, quasi senza poesia nel suo effetto disturbante anche in rari momenti di “bellezza”. Dimenticate tutto e costruite un paradigma nuovo di visione. Imprescindibile comunque. Da vedere. A cura di Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, e Susanne Kleine, Bundeskunsthalle Bonn.
Tutti i giorni, inclusi i festivi, Firenze culla del Rinascimento, regala una proiezione che sovverte ogni regola, anzi forse semplicemente va oltre la regola, come quando qui fu scoperta la prospettiva. Anche quella di Marina Abramovic è una prospettiva nuova, non tanto la voglia di protesta e provocazione dove lei è dentro e al centro dell’autosperimentazione, rischiando anche fisicamente. Qui non è presente ma ci sono immagini e performer che ne seguono la via con una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera, dagli anni Settanta agli anni Duemila, attraverso video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e la riproposizione dal vivo di sue celebri performance attraverso un gruppo di performer specificatamente formati e selezionati in occasione della mostra.
L’esposizione nasce dalla collaborazione diretta con l’artista nella volontà di proseguire – dopo Ai Weiwei e Bill Viola – la serie di mostre che hanno portato a esporre a Palazzo Strozzi i maggiori rappresentanti dell’arte contemporanea. Il palazzo verrà nuovamente utilizzato come luogo espositivo unitario, permettendo a Marina Abramović di confrontarsi per la prima volta con un’architettura rinascimentale e in cui verrà sottolineato lo stretto rapporto che ha avuto e continua ad avere con l’Italia. Nel cortile infatti un camion perché racconta che nel suo paese si verificavano incidenti stradali spaventosi dai quali per altro rimaneva affascinata e che in alcune rappresentazioni in mostra sono abbinati alle nuvole. In mostra anche alcuni dipinti, a dire il vero non meritevoli di essere citati, che testimoniano però la sua prima forma espressiva. Altro elemento imprescindibile per capire la sua arte il sodalizio con l’artista tedesco e suo ex compagno, Ulay. Celeberrima è Imponderabilia, del 1977 presso la Galleria d’arte moderna a Bologna. I due, completamente nudi, si posizionarono all’entrata del museo. Chiunque, per passare, avrebbe dovuto superare i loro due corpi vicinissimi. La performance venne interrotta dalla polizia. Del percorso fatto insieme in mostra alcune proposte come quando si fecero legare per i capelli dando luogo ad una sorta di cordone ombelicale che li fondeva in un ideale corpo unico, e ancora quando si prendevano a schiaffi, o urlavano a squarciagola l’uno di fronte all’altro, o ancora restavano immobili per ore a seguito di corsi e studi legati alla meditazione e a pratiche orientali. Splendida la raffigurazione di un arco e freccia puntata dritta al cuore di marina che i due amanti tengono da parti opposte in tensione grazie al peso del loro corpo. Infine ci fu la separazione anche quella singolare, una performance al centro della Grande Muraglia dove i due cominciarono a camminare riprendendo ognuno la propria strada in direzione opposta e qui riproposta in un passaggio con una Marina in rosso che cammina Balkan Baroque, nel 1997,tra la gente. Il pubblico è coinvolto in qualche modo, da quando entra sfiorando i corpi dei due giovani nudi scegliendo dalla parte di chi voltarsi, poi potendosi togliere le scarpe ed entrare in blocchi di cristallo a piedi nudi e occhi chiusi per un tempo indeterminato lasciandosi trasportare dal viaggio pensando all’arte di Marina, o altri passaggi. Una sala è vietata ai minori di diciotto anni che in questo mondo fa effetto: all’interno la proiezione di uomini che si masturbano e donne che scoprono i loro genitali sotto la pioggia. Sono performer che lei stessa ha faticato a trovare e richiamano i riti agricoli serbi di fertilità per scacciare gli spiriti negativi e invocare la pioggia. E ancora immancabile la pulitrice di uno scheletro che si sporca sempre di più come la stessa ragazza. Qualcosa di molto più estremo Marina lo fece in una Biennale a Venezia con dove contestata finì in una stanza piccola e dal clima soffocante. Era una protesta contro la guerra e lei stessa era distesa nuda su una carcassa di ossa di vacca pulite e coperta di ossa sanguinolente con pezzi di carne attaccata che puliva. Sette ore di performance al giorno che il caldo trasformò in un quadro di orrore. La carne divenne verminosa, l’odore insopportabile. Il risultato fu il Leone d’oro. Il pubblico era disgustato e sedotto ad un tempo. Questa è Marina anche nella protesta con l’Onu per l’intervento durante la guerra e uno scheletro che dirige un coro di bambini che cantano ispirati all’Ong. Tra le performance più recenti possiamo citare The Artist is present, del 2010. Per tre mesi al Museo di Arte Moderna di New York, la Abramovic rimaneva seduta e immobile di fronte una sedia su cui di volta in volta i visitatori avrebbero potuto trascorrere del tempo. Durante l’ultimo mese della performance il tavolo che si trovava tra le due sedie è stato rimosso. Tra le persone che si sono sedute davanti a lei, un giorno d’aprile è arrivato anche Ulay. Il titolo, The cleaner, celebra un passaggio: arrivata a questa fase della carriera, l’artista si guarda indietro, lavora sulla propria memoria, fa pulizia (the cleaner, appunto) e mantiene solo quel che, fino a oggi, ha contato nella costruzione del suo essere, della sua storia, della sua identità. «Visitando la mostra – sottolinea Galansino -, si compie un emozionante viaggio attraverso il vissuto straordinario di questa donna forte, dal carattere incredibile. Parliamo di un’artista, oggi settantaduenne, che ha cominciato a lavorare alla fine degli anni ‘60, ha inventato un genere e, in 50 anni di carriera, ha saputo evolvere il suo linguaggio con forza ed efficacia, trasformandosi in modo camaleontico, ma rimanendo sempre fedele a se stessa: da artista di rottura negli anni ‘70 a icona pop, celebrata nelle serie televisive e ammirata dai designer. Una vita e una carriera incredibili».
A cura di Giada LUNI.