Da inizio anno a metà ottobre gli investitori di venture capital italiani e internazionali hanno finanziato per oltre 363 milioni di euro ben 22 cosiddette scaleup italiane (cioè start up che sono riuscite già a “scalare” il loro business e a raggiungere dimensioni interessanti per essere aziende giovanissime), con ben nove società che hanno raccolto round dai 12 milioni in su. Lo ha scritto BeBeez nel suo approfondimento periodico per Credimi, riprendendo un dato che emerge dal database BeBeez Privata Data, considerando soltanto le società che in questi mesi hanno raccolto round dai 3 milioni in su e che quindi possono essere considerate “start up cresciute”.
Il dato è estremamente positivo per il mercato italiano, anche eliminando l’ultima grande operazione annunciata, decisamente fuori scala rispetto alle altre, e cioè il round da 100 milioni di euro che ha portato a casa nei giorni scorsi Prima Assicurazioni, la startup insurtech specializzata nella distribuzione di polizze auto, che sfrutta sofisticate tecnologie di intelligenza artificiale per comprendere al meglio i bisogni e le necessità di ogni singolo utente. A firmare il ricco assegno sono stati Goldman Sachs Private Capital Investing e il fondo Tactical Opportunities di Blackstone. Anche non considerando questi 100 milioni, si diceva, il dato di 263,5 milioni sarebbe già comunque eclatante, perché più del doppio dei circa 110 milioni raccolti da 13 scaleup italiane in tutto il 2017 (arrotondando per tenere conto del cambio con il dollaro, visto che in alcuni casi i round sono in valuta Usa). Il tutto a indicare che il mercato in Italia sta maturando e che c’è quindi da un lato una maggior attenzione degli imìnvestitori internazionali e dall’altro le startup sono sempre più numerose e nel numero iniziano a distinguersi quelle più promettenti.
A supportare le imprese appena nate o nate pochi mesi e quindi per definizione non quotate, non sono però i fondi di venture capital, che di norma entrano in una fase un poco più avanzata, quando esiste già un prodotto o un servizio sul mercato. Gli investitori più comuni ad accompagnare i primi passi delle aziende sono invece i cosiddetti business angel.
Sono manager o imprenditori che amano investire personalmente in progetti di nuovi business da soli oppure organizzati in network. In genere si tratta di investimenti da qualche decina di migliaia di euro per progetto e gli investimenti vengono fatti in maniera seriale. Spesso il business angel non investe soltanto capitali, ma anche il proprio tempo al progetto, che quindi in genere riguarda un settore che il business angel conosce bene, per esperienze lavorative presenti o passate. Negli ultimi anni spesso in Italia i network di angeli hanno iniziato a investire al fianco dei fondi di venture capital in operazioni seed. I principali network di angeli italiani sono Italian Angels for Growth (IAG) e IBAN (Italian Business Angels Network). In questa fascia si collocano anche le piattaforme di equity crowdfunding, che raccolgono capitali tra investiotri privati e non. Le piattaforme, grazie agli ultimi sviluppi normativi, possono in realtà ospitare campagne anche di pmi tradizionali, tuttavia sinora la stragrande maggioranza delle campagne ha riguardato startup innovative, per cui sicuramente vanno annoverate tra gli strumenti più utili di supporto alla nascita e crescita delle startiup.
Ma non è tutto. Sempre nelle prime fasi di sviluppo delle startup ci sono altri due soggetti che possono fare la differenza. Si tratta degli incubatori e degli acceleratori d’impresa. In entrambi i casi si tratta di soggetti che supportano le startup offrendo loro una vasta gamma di servizi di supporto che includono spazi fisici, attività per lo sviluppo del business e opportunità di integrazione e networking. In genere, però, gli incubatori supportano i team che stanno per fondare una startup, cioè non hanno ancora ufficialmente avviato un’impresa, o che sono in una fase molto precoce, mentre gli acceleratori affiancano solitamente startup in una fase un poco più avanzata e che quindi possono affrontare un percorso di accelerazione e crescita attraverso uno specifico programma. (clicca qui per un elenco aggiornato degli incubatori e degli acceleratori italiani).
Una volta portato sul mercato il prodotto e il servizio e mostrato soprattutto che per quel prodotto o servizio un mercato esiste, ecco allora che gli interlocutori delle startup cambiano e più frequentemente diventano soggetti strutturati, cioè fondi di venture capital, che a loro volta possono comunque avere approcci di investimento diversi a seconda delle fasi del ciclo di vita delle startup che vanno a prediligere e quindi a seconda delle dimensioni dei singoli investimenti che sono pronti a sostenere. Tra gli operatori di venture capital si distinguono quindi quelli di “seed” capital, che cioè supportano le startup nelle loro prime fasi di vita e quelli di “scaleup”, che supportano cioè le startup che ormai hanno raggiunto dimensioni più grandi e hanno quindi bisogno di capitali più importanti per scalare di dimensione. In mezzo ci sono i venture capital classici, che investono in startup che già hanno ottenuto l’investimento seed, ma che ancora hanno bisogno di benzina per sviluppare il proprio prodotto o servizio.
I fondi di venture seguono le logiche di quelli di private equity, con la differenza che gli investimenti sono molto più rischiosi, perché la mortalità delle aziende sulle quali i fondi scommettono è molto elevata. Per contro, le aziende che invece hanno successo, hanno facilmente tassi di crescita esponenziali e quindi un rendimento molto elevato per gli investitori, che in questo modo si ripagano anche degli investimenti fallimentari.
I fondi di venture capital non comprano mai l’intero capitale delle startup target, perché i fondatori delle startup sono la vera ricchezza dell’azienda, essendo coloro che hanno avuto l’idea e hanno la visione di dove vogliono arrivare. Per preservare la governance, a fronte di investimenti di capitale importanti rispetto al valore attuale della startup, spesso alle quote o azioni dei fondatori vengono assegnati diritti di voto plurimo.
I fondi di venture, però, hanno le stesse logiche dei fondi di private equity anche nell’approccio alla cosiddetta exit, cioè al momento del disinvestimento: un fondo ha sempre una durata limitata di vita e in quella vita deve porter disinvestire e portare a casa un guadagno. Certo, più un fondo è in grado di seguire l’investimento di venture capital di successo e più evidentemente può guadagnare dall’aumento di valore esponenziale dell’investimento. I fondi di venture italiani sono ancora di dimensioni piccole rispetto ai principali fondi europei o del resto del mondo, ma alcuni campioni si stanno distinguendo e si stanno dimostrando in grado di seguire le proprie partecipate in round successivi, coinvolgendo anche grandi fondi internazionali, a dimostrare che il mercato sta davvero prendendo una sua consistenza.