Pur nell’incertezza nella quale oggi viviamo dobbiamo conservare la fiducia in un futuro prossimo, dal quale il virus sarà debellato e la vita potrà riprendere a scorrere su canali normali, sereni e rassicuranti.
Ma è proprio per questa speranza, che auspichiamo divenga presto certezza, che dobbiamo domandare in primo luogo a noi stessi, onde definire con chiarezza le nostre aspettative, e successivamente ai reggitori della cosa pubblica, come riprogrammare la nostra vita comunitaria, quali cose, approfittando della forzata pausa che spero sia per tutti anche di riflessione, intendiamo rivedere, ridisegnare per organizzare un futuro veramente migliore quale ci spetta dopo una prova così ardua.
La difficile congiuntura economica nella quale ci troviamo e che sembra destinata a divenire ancor più severa, ci induce a ben valutare come investire in maniera attenta e fruttifera le nostre risorse, evitando sprechi.
Il mio pensiero va alle Fondazioni lirico-sinfoniche, ai criteri gestionali con i quali attualmente sono governate. In una recente intervista al “Corriere”, il ministro Dario Franceschini ha detto che 14 Fondazioni liriche in Italia sono troppe; con ciò si sottintende che non possiamo più permettercele. L’affermazione del ministro induce a doverose riflessioni. Non penso si possa chiudere nessuna delle 14 Fondazioni poiché ognuna di esse è grande testimonianza storica, artistica e culturale ed inoltre non è possibile privare parte dei cittadini di un primario servizio culturale. Ciò premesso non bisogna però non riconoscere al ministro la fondatezza della sua preoccupazione per le difficoltà finanziarie del momento che va condivisa da tutti gli operatori del settore.
Nel 1996 gli Enti Lirici, organizzati secondo il disposto della Legge 800/1967, la c.d. “Legge Corona”, vennero trasformati in “fondazioni” di diritto privato, confidando che questa nuova veste giuridica avrebbe richiamato sponsor sgravando così in parte il bilancio dello Stato di costi purtroppo ingenti. Varie ragioni hanno vanificato tale iniziativa, tra queste la non soddisfacente defiscalizzazione dei contributi eventualmente versati ai teatri d’opera.
A parte ciò, osserviamo che il sistema produttivo dei teatri d’opera italiani è definibile ”di stagione”; vale a dire che il teatro di volta in volta formula un programma (cartellone), lo realizza con un certo numero di recite per titolo e poi, al termine della stagione, salvo qualche ripetizione, di quei titoli non se ne parla più. E, si badi bene, ognuno di quei titoli ha avuto un rilevante costo per il suo allestimento scenico, senza contare poi i compensi per cantanti, direttore d’orchestra, regista, coreografo, scenografo, costumista, light designer, ecc..
Non parliamo qui dei costi di orchestra, coro, corpo di ballo, maestranze tecniche, amministrativi, poiché queste rientrano in un capitolo di spese fisse, indipendenti dalla singola produzione.
Già questa sintetica descrizione dell’organizzazione teatrale lascia intendere il peso economico di queste istituzioni. A ciò si aggiunga la pesante limitazione quantitativa della produzione. Per allestire un’opera ampiamente conosciuta, quale può essere, ad esempio, un’opera di Verdi o di Puccini, bisogna ogni volta cominciare da capo, poiché la compagnia di canto è stata composta ad hoc, la regia e l’allestimento scenico sono nuovi, il direttore d’orchestra è scritturato per quella specifica produzione. Occorrono così lunghi periodi di prova con conseguente limitazione del numero di spettacoli al pubblico.
In molti Stati esteri, in primis la Germania, il sistema produttivo è radicalmente diverso e viene denominato “teatro di repertorio”. In parole povere significa che il Teatro ha in paga, con stipendio decoroso ma ben lontano dai cachet corrisposti agli Artisti scritturati per un’opera specifica, cantanti da utilizzare liberamente, previa opportuna preventiva programmazione e ripartizione del lavoro, per le produzioni, e che orchestra, coro, corpo di ballo, che agiscono per lo più con direttori stabili, hanno un repertorio che può andare in scena senza passare per il lungo periodo di prove indispensabile nel nostro sistema. Ne consegue un incremento considerevole del numero di spettacoli ed un abbassamento dei costi di produzione. Gli Artisti, che nel nostro sistema non hanno sicurezza economica e debbono cercare di ottenere il maggior beneficio possibile dalle scritture che riescono ad avere, nel teatro di repertorio invece raggiungono certezza del proprio reddito e, di conseguenza, hanno costi inferiori. Altro lato positivo, di notevole rilevanza economica, è dato dall’utilizzo degli allestimenti scenici. L’investimento fatto per una produzione viene ammortizzato negli anni, con notevole vantaggio per l’economia del teatro.
Né si pensi ad una immobilità del repertorio. In ogni stagione è previsto l’inserimento, con relative prove, di alcuni titoli non ancora presenti che, dopo il debutto, resteranno in cartellone per gli anni avvenire. In tal modo si evita l’assurdità di vedere utilizzato solo per cinque o sei recite lo sforzo economico sostenuto per una nuova produzione.
La forzata pausa alla quale ci ha costretti il corona-virus ci può anche stimolare ad ulteriori riflessioni.
Per chi si fa Teatro?
La risposta è ovvia: per il pubblico.
Ma quale deve essere la formazione e la qualità del pubblico? Deve essere un pubblico che va in teatro per assistere ad un evento, a qualcosa di particolare che ha un richiamo specifico che può essere di vario genere, anche diverso da quello artistico e probabilmente più edonisticamente mondano, o auspichiamo che lo spettacolo sia occasione di autentica crescita culturale, tessuto connettivo della nostra società e pertanto non configurabile quale evento, bensì quale “normalità” della nostra vita?
Penso che la grave crisi economica che bussa alla porta, e che il ministro Franceschini ha opportunamente evidenziato, ci induca, per necessità, a scegliere strade che consentano un abbattimento dei costi di produzione ma dobbiamo stare attenti a che questo non significhi, come in parte è drammaticamente avvenuto per la Sanità, diminuzione dei servizi alla collettività, come dalle sue stesse parole si potrebbe intuire anche se, conoscendo la sensibilità e la profonda cultura del ministro, dubitiamo che tale possa essere il suo intento. Dobbiamo invece coniugare risparmio con efficienza e quindi è doveroso lavorare per un aumento della produzione. La media delle produzioni delle nostre Fondazioni liriche e sinfoniche è di 77 all’anno (sono compresi nel computo anche concerti e spettacoli di danza) contro i 226 della Staatsoper di Vienna e i 225 del Metropolitan di New York. I numeri parlano da soli.
Il Teatro “di repertorio” avrebbe, come effetto collaterale ma non secondario, quello di fornire possibilità di lavoro a giovani artisti svincolandoli dal duro e gravoso passaggio dell’intermediazione – agenzie – che spesso condiziona e talvolta soffoca le possibilità di carriera.
Inoltre vi sarebbe una ricaduta in positivo anche sul turismo. Oggi più che mai si va affermando un turismo “mordi e fuggi”, con permanenza breve in una città. Spesso il turista non può entrare in uno dei nostri grandi teatri poiché nei pochi giorni della sua presenza non vi è spettacolo. Il teatro di repertorio aumenterebbe invece la possibilità di frequentazione turistica dei nostri teatri.
Ultimo argomento sollevato dal ministro è quello della manifesta incapacità di alcune amministrazioni di teatro. Non si può che concordare con quanto dal ministro affermato ed auspicare una sorta di “DASPO” che eviti la permanenza di incapaci ai vertici dei nostri teatri.
Se utilizzeremo veramente bene questa “pausa di riflessione” potremo dire di aver tratto un risultato positivo dalla grande tragedia che ci ha colpito.
a cura del Maestro Filippo Zigante