di Gian Marco Committeri,
partner di ALONZO Committeri & Partners
Le operazioni di m&a hanno subito, inevitabilmente, un rallentamento a causa dell’esplosione della pandemia da Covid-19. Non poteva essere diversamente, d’altronde, trattandosi di transazioni che mal si prestano ad essere gestite nel rispetto delle regole imposte per combattere il virus. Non che non si possano svolgere alcune importanti attività, propedeutiche o accessorie, come alcune due diligence ma non è agevole immaginare una negoziazione effettuata esclusivamente in conference call o via e-mail, senza contare l’elemento più importante di tutti: l’incertezza sul futuro del business.
Se, infatti, pochi dubbi si possono avere sul fatto che i mercati riprenderanno a richiedere beni e servizi come accadeva prima della crisi, resta il tema di quanto tempo servirà per tornare ai numeri pre-Covid e il tempo è denaro, soprattutto nella finanza. Perché durante quel tempo sarà possibile che molte aziende abbiano bisogno di un supporto finanziario straordinario che i nuovi acquirenti dovranno garantire.
Un contributo, ovviamente, può darlo il venditore riducendo la sua pretesa ovvero subordinando il pagamento di una porzione di prezzo al raggiungimento di specifici obiettivi economico-finanziari (earn-out); soluzione prospettabile, con maggiori possibilità di successo, se il venditore resta anche a gestire l’impresa post acquisizione, così che il raggiungimento degli obiettivi target per l’earn-out dipenda concretamente da lui.
Ma potrebbe non essere sufficiente per dare energia a un settore che comunque merita di essere sostenuto, perché non vi è dubbio che le operazioni di m&a (sia industriali sia condotte dagli operatori del private equity) nascono sempre con l’obiettivo di far crescere e sviluppare le imprese con conseguenti vantaggi per tutti gli stakeholder, incluso il Fisco. Ecco quindi che anche la leva fiscale potrebbe essere della partita.
Due sono le misure che potrebbero concretamente aiutare gli operatori dell’m&a: una agevolazione fiscale correlata alla capitalizzazione delle imprese e una rivisitazione delle norme in materia di affrancamento dei (maggiori) valori che tipicamente emergono nelle operazioni straordinarie.
Sul primo fronte, si tratta di misure già note al nostro ordinamento tributario, prima con la Dit (Dual Income Tax) e più recentemente con l’ACE (Aiuto alla Crescita Economica). Si tratterebbe di immaginare qualcosa di più specifico, magari prevedendo meccanismi particolarmente incentivanti in presenza di un change of control, ossia di un evento che tipicamente caratterizza, appunto, le operazioni di m&a. Un passo avanti è stato fatto con gli incentivi previsti dall’articolo 29 del Decreto Rilancio (in corso di pubblicazione al momento della chiusura di questo contributo, si veda altro articolo di BeBeez), anche se il limite di 50 milioni di ricavi annui esclude dalla misura una platea troppo vasta di soggetti.
Stesso discorso si può fare per l’affrancamento dei maggiori valori che emergono a seguito della incorporazione delle aziende target, tipicamente allocati negli intangibles (avviamento in primis) ovvero attraverso il conferimento di aziende o rami d’azienda iscritti al valore di mercato ma che mantengono, fiscalmente, i medesimi valori (tipicamente inferiori o nulli) esistenti presso la conferente (si pensi sempre al goodwill). La misura esistente non è efficiente e non genera interesse perché le aliquote dell’imposta sostitutiva (16% assumendo l’aliquota più elevata) erano state previste quando l’aliquota ordinaria dell’IRES era del 33%. Oggi, con l’imposta ordinaria al 24% sarebbe necessaria una riduzione dell’imposta sostitutiva a un rate massimo del 10% per ridare appeal alla norma che, a ben vedere, deve spingere gli operatori a operare un riallineamento tra valori civilistici e fiscali degli asset che dovrebbe rappresentare una situazione fisiologica nell’ambito della gestione dell’impresa.
Inoltre, si potrebbe cogliere l’occasione per rivedere strutturalmente il termine entro il quale le persone fisiche possono procedere con la rivalutazione delle partecipazioni, attualmente fissato al 30 giugno 2020 (anzi al 30 settembre 2020 per effetto della proroga contenuta nell’articolo 144 del Decreto Rilancio). Non ha senso, infatti, avere un termine a metà anno che può creare ingiustificate discriminazioni. Se proprio la rivalutazione, introdotta nel 2001 e costantemente prorogata, non può diventare una norma di sistema (evidentemente perché fa più comodo avere il gettito a disposizione, anno per anno, come misura di copertura nel bilancio dello Stato) si potrebbe almeno spostare il termine da giugno a dicembre, anche prevedendo il pagamento di interessi per chi si avvale della misura nella seconda parte dell’anno, come già previsto in caso di pagamento rateale dell’imposta sostitutiva.
Da ultimo un monito per i funzionari del Fisco: risultano alcune richieste di informazioni volte a valutare il disconoscimento del regime della participation exempion (Pex) alle cessioni effettuate da fondi di private equity, attraverso i veicoli societari partecipati, in virtù di una presunta indebita iscrizione della società oggetto di cessione tra le immobilizzazioni finanziarie (anziché nell’attivo circolante, evenienza che avrebbe precluso l’applicazione della Pex). Ebbene, di molte cose ha bisogno il settore tranne che di essere trascinato in un defaticante contenzioso il cui esito, peraltro, a meno di irragionevoli strappi interpretativi delle norme, appare del tutto scontato e certamente non favorevole alla Agenzia delle entrate, tenuto conto, altresì, che in caso di cessione diretta da parte del fondo della partecipazione nessuna imposta verrebbe applicata.