Lift Like a Girl (Ash Ya Captain), primo lungometraggio di Mayye Zayed, regista nata ad Alessandria d’Egitto nel 1985 – coproduzione di Egitto, Germania e Danimarca (della durata di 92 minuti) da parte di Cleo Media, JYOTI Film e Rufy’s Films – presentato nella sezione TIFF Docs al Festival di Toronto. Premio “Colomba d’Oro” Migliore Documentario Lungo e Film d’Animazione in Co-produzione al DOKFESTIVAL LEIPZIG 63, racconta una storia di emancipazione femminile ad Alessandria d’Egitto, grazie allo sport e uno sport tipicamente maschile, il sollevamento pesi. Un vero e proprio documentario (girato in arabo egiziano, sottotitolo in inglese) che non lascia spazio a divagazioni, pieno di energia, dove entusiasmo e disciplina, fiducia in se se stessi e accettazione della sconfitta, almeno in una battaglia sono gli ingredienti quotidiani che
foggiano un campione. Una narrazione senza sbavature, eppure tenera, attraverso i sorrisi della protagonista, Asmaa “Zebiba”, uva secca in arabo, quattordicenne che sogna di diventare la prossima Nahla, la figlia del capitano, una delle atlete più famose in Egitto, ex campionessa del mondo. Inoltre Captain Ramadan ha allenato Abeer Abdel Rahman, la prima donna araba ad essere due volte campionessa olimpica. Come ha detto un presentatore che lo ha introdotto iniziando con i suoi onori: “Ha fatto diventare così tante persone dei campioni, che abbiamo perso il conto”. La vicenda si svolge tra le strade trafficate e polverose di Alessandria, dove il Capitano Ramadan, che allena da oltre vent’anni giovani sollevatrici di pesi destinate a diventare campionesse, crede molto in questa ragazzina. Per quattro anni, Zebiba passa attraverso vittorie e sconfitte, umane e sportive: una formazione che la porterà a trovare la sua strada, dalla polvere all’oro, senza un facile lieto fine, senza opposizioni familiari, o almeno non citate, un piccolo film che si apprezza per la sua lucidità e il carattere asciutto dello sguardo. Efficace la fotografia che sa cogliere con naturalezza una vita con i piedi nella polvere, tra umiltà e allegria.
Captain Ramadan ha raggiunto infatti tutti i suoi successi allenando campionesse con il minimo dei mezzi. Lavora in una palestra all’aperto su di un pezzo di terra nell’angolo di una strada che sembra un cantiere edile, salvo il fatto che la proprietà è di così poco valore che nessun magnate che si rispetti vuole mandare le ruspe. Le auto sfrecciano sullo sfondo. La sensazione di caos è accentuata dall’utilizzo della videocamera a mano che va e viene, catturando momenti. Si ha l’impressione di respirare polvere e rumore, come nella maggior parte dei quartieri popolari del sud, dove i giovani vivono per lo più per strada e le donne in casa, tra commissioni varie e dove il mercato è spesso l’unico diversivo. (qui a lato Mayye Zayed).
La regista alterna inquadrature da lontano, spesso al femminile, scene di vita quotidiana allegre e disordinate e poi improvvisamente stringe la telecamera puntando al cuore, cercando di farci affacciare sull’emotività e la tensione delle atlete, come quando sono in autobus insieme, ossessionate dal peso per partecipare alle diverse categorie.
Nel tempo c’è un passaggio di padre in figlia, un cambio generazionale anche nell’allenamento da uomo a donna, da adulto a giovane, da ‘tutto cuore’ a ‘testa e cuore’.
C’è una nota nel film che sorprende, una grande fratellanza tra ragazzi e ragazze, un’affettuosità e una spontaneità che non mi è familiare in quel mondo soprattutto in ambienti popolari, come se lo sport superasse ogni barriera.
a cura di Ilaria Guidantoni