Che cosa insensata che è la scrittura, per chi anela a vivere nell’ombra, ma cerca assiduamente di riflettere la fiammella, il tepore del focolare appartato, il lieve bagliore del cero del suo anfratto, come per moltiplicarlo, sullo specchio narcisista del gioco triangolare tra il sé e gli altri… Che gioco egoista, Teresa, usare gli uomini, usare il mondo oltre la caverna dell’arte, per imporre una volontà introspettiva, per edificare il controsenso di un bisbiglio che diventi grido amplificato… Eppure, la volontà di appartarsi, di fuoriuscire “da”, di nascondersi “in” e rifugiarsi “dentro”, al di qua, nella sicurezza di un pertugio, di una feritoia da cui guardare senza farsi vedere, ma calcando d’inchiostro pagine capaci non solo di farsi notare, ma nudi, spogliati, violati, aperti e squarciati, quasi radiografati, quasi “intrasparentiti”, e perché no umiliati, anche di svelarsi pienamente, intimamente, irrevocabilmente, non è essa stessa una contraddizione capace di svelare il recondito desiderio d’umano, il (mal)celato bisogno di appartenenza, di patria apolide, di famiglia de-sanguizzata (di grammatica sgretolata), ma che risulta, in questo modo, ancor più pregna di cittadinanza, di sangue, di regole ferree? Io sento di far parte di una minoranza reietta, Teresa. Ma qual è il mio pubblico ideale, se non chi di questa minoranza non fa parte? E chi è però, Teresa, il bersaglio del mio odio letterario ancor più della folla, degli altri “maggioritari”, della massa informe (ma forse più autentica) di uomini “numerici” che appesantiscono la crosta terreste con la loro insensata (insensata?) presenza? Forse è proprio quella stessa minoranza che odio, forse sono proprio io il bersaglio della mia irritazione: nevrosi di un’incapacità di vivere, di sopportare, di darsi altruisticamente… Il conflitto interno, Teresa, è come una guerra civile: non è guerra di civiltà, l’una contro l’altra, ma guerra di contraddizione di una sola civiltà, capace di svelarne tutto l’inceppamento, tutta l’insensatezza delle leggi. In fondo, la risposta che mi do sempre è che l’errore umano più grande è quella di considerare l’uomo come essere razionale, ragionevole, logico, ordinato. Siamo mossi dalla contraddizione di una natura ambigua, che rende consci dell’immortalità pur essendo mortali, dell’infinito pur essendo finiti, del possibile che per noi è invece impossibile. La grandezza di uno scrittore, Teresa, non è il farsi ricordare: questo è un vezzo, un vizio, una debolezza. La sua grandezza è quella di rendersi intimamente umano, con se stesso e non con gli altri: ecco che scrivere torna ad essere un atto solitario, vero, autentico. Ma questo è un passaggio difficile, Teresa. Perché significa la rinuncia al narcisismo, significa rinunciare al desiderio di gloria, alla brama d’immortalità. L’arte ha una scelta davanti: l’eternità contro la verità. Ma il vero ci atterrisce in quanto non rassicurante, si tratta di un atto eroico, coraggioso in quanto silenzioso. Nessuno saprà mai; solo noi, solo io, solo l’individuo nel suo anfratto, potrà conoscere se stesso e la sua contraddizione, e scoprire finalmente l’uomo che è e soprattutto cosa è l’uomo. Ma tutto cade non appena qualcuno ci legge, non appena riaffiora la speranza di farci conoscere, di parlare agli altri, di trovare amici, famiglia, patria. Non appena la voglia di uscire dalla caverna si affaccia con un raggio di luce. E allora il conflitto si trasforma in un conflitto non più tra l’eterno e il vero, ma tra il vero e l’orgoglio umano, l’orgoglio della nostra povera razza terrestre. Che m’importa di sapere cos’è l’uomo? Non è forse ancor più vero che l’essenza dell’uomo sta nell’accettazione della sua natura, delle sue voglie, delle sue contraddizioni? Non è forse ancor più vero della verità che la voglia d’eterna immortalità ci qualifica ancor di più di tutto il resto? Che il desiderio dell’altro, legato a un’ancestrale natura cavernicola, ci caratterizza e richiede un’aderenza piena alla sua insensatezza? Il conflitto, allora, non è forse un conflitto della vita contro la verità? E’ così vero che la logica ci uccide nella sua cinica verità, mentre l’uomo (contraddittorio, insensato, ambiguo) è festoso, danzante, eroico… e non è questa l’essenza ultima dell’artista come baluardo d’umanità, come avanguardia di vita, come ribellione contro la razionalità imperante, come bandiera per la vita? La tensione all’eterno, all’immortale, al vero, non vale forse più del loro raggiungimento? Non è forse qualcosa di più intimamente autentico? Gli antichi greci credevano che Èros, l’Amore, fosse figlio di Pòros e Penìa, dell’Abbondanza e della Mancanza, dell’Ingegno e del Bisogno, dell’Espediente e della Carenza, di una contraddizione insomma.
Alla fine di tutto, Teresa, non è proprio l’Amore la nostra verità più profonda?
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