Mentre sui grandi schermi va in scena il docu-film dedicato alla sua vita e alla sua carriera, la Galleria Nazionale dell’Umbria rende omaggio a Perugino con una grande mostra, a 500 anni dalla sua morte. Si veda qui ArtTribune.
La mostra su Perugino, allestita alla Galleria Nazionale dell’Umbria in occasione dei cinquecento anni dalla morte, offre una ricca panoramica della produzione del maestro tra gli inizi degli Anni Settanta del Quattrocento e i primi anni del secolo successivo, affiancando a opere significative di Pietro Vannucci (Città della Pieve, 1450 circa ‒ Fontignano, 1523) un buon numero di dipinti di artisti coevi.
Il percorso si articola in sette sezioni, in parte a carattere cronologico e in parte tematico: la prima sezione illustra la formazione tra Perugia e Firenze e il confronto con Verrocchio, mentre la seconda racconta il momento di svolta della carriera del pittore, tra la fine degli Anni Settanta e gli inizi degli Anni Ottanta, quando papa Sisto IV lo chiama a lavorare a Roma. Si passa quindi a esemplificare la fase in cui lo stile dell’artista giunge a maturazione, all’insegna di una qualità strepitosa e di una “dolcezza ne’ colori unita”, come scrisse Vasari, che incanta lo spettatore. Sono qui riuniti capolavori assoluti, come tre delle otto opere prestate dagli Uffizi (l’Orazione nell’orto, il Compianto e la Madonna con il Bambino tra i santi Giovanni Battista e Sebastiano) e il Trittico della Certosa di Pavia da Londra, qui riunito con il Dio Padre che ancora si trova alla Certosa.
Splendida anche la sezione successiva, dedicata alla ritrattistica: tra gli altri capolavori spicca il dibattuto Ritratto di Perugino degli Uffizi, già assegnato a Lorenzo di Credi o a Raffaello, e presentato in mostra come autoritratto dell’artista. La questione parrebbe definitivamente risolta: solo pochi giorni prima dell’apertura della rassegna si è verificato come le misure del volto degli Uffizi corrispondano al millimetro a quelle dell’autoritratto dipinto da Perugino su una delle pareti del poco distante Collegio del Cambio, a suggerirci che il maestro utilizzò per entrambe le opere lo stesso cartone.
Dopo una sezione dedicata alle Madonne di Perugino e alla loro fortuna, testimoniata da copie e derivazioni, si incontra un approfondimento riservato alla diffusione del linguaggio messo a punto dal maestro umbro: la scelta degli artisti e delle opere presenti è molto azzeccata, includendo personalità di diverse aree della penisola e rielaborazioni originali degli spunti perugineschi (si va dal piemontese Macrino d’Alba al veneto Francesco Verla ai campani Stefano Sparano e Cristoforo Faffeo).
La mostra si chiude con due dipinti antitetici, uno di soggetto sacro e l’altro profano, uno eseguito a olio su tavola e l’altro a tempera su tela: il celeberrimo Sposalizio della Vergine da Caen, il cui temporaneo ritorno a Perugia a oltre due secoli dalla sottrazione napoleonica costituisce il grande evento intorno al quale è germogliato il progetto espositivo, e la Lotta di Amore e Castità dal Louvre, realizzato per Isabella d’Este, che non fu del tutto convinta (e non senza ragioni) del risultato.
Siamo nel 1504-05, e a questo punto si arresta il racconto: ne resta fuori tutta l’ultima parte della carriera di Perugino, fino alla morte avvenuta nel 1523, gli anni della decadenza, in cui la produzione dell’artista, destinata ormai a centri e committenti minori, si fa sempre più stanca e ripetitiva. La scelta può lasciare interdetti: Perugino affascina non solo perché raggiunse il vertice, ma anche come esempio di artista che non riuscì a rinnovarsi, come “sopravvissuto” di un’epoca ormai superata.
È vero, tuttavia, che gli spazi destinati alla mostra non sono estesissimi, e quindi soffermarsi anche su questa produzione non così strepitosa avrebbe costretto a tagliare opere eccelse degli anni precedenti. Ed è vero che diversi esempi di questa produzione più fiacca del Perugino tardo il visitatore li può trovare in Galleria (da dove infatti non sono stati spostati): questo però non viene detto, quando invece sarebbe bastato un breve accenno per invitare lo spettatore a concludere la visita nelle sale del museo, riflettendo su quanto sono varie le parabole della sorte e dell’ingegno umano.