Al di là della mondanità e della spettacolarizzazione di cibo e vino, argomenti che hanno conquistato da tempo il piccolo schermo, facendo diventare il mestiere di cuoco una professione da star, il mondo del cibo si è ritagliato una fetta importante dell’economia, legata al turismo in particolare, e anche alla cultura. Riscoperto relativamente di recente il legame con la cultura, la simbologia, la sacralità, da sempre cibo e bevande raccontano un popolo, un gruppo sociale, una personalità e nella cultura classica hanno occupato un posto di tutto rilievo dal simposio greco al convivio latino; mentre nei monasteri medioevali è nata in embrione la moderna viticoltura. La Francia ha saputo prima e meglio dell’Italia, alla quale contende il primato mondiale, raccontare e raccontarsi. Nei programmi scolastici di geografia d’Oltralpe, ad esempio, l’enologia ha un posto di rilievo. Nel Belpaese la cultura del vino, non come prodotto da consumo, di produzione locale, è arrivata, invece, relativamente tardi ma oggi si sta imponendo, finalmente, non solo come una moda.
È il caso dell’azienda friulana Perusini che ha sede nella settecentesca Villa Pace, dove si svolge un’attività collegata alla produzione del vino, in particolare dell’affinamento del vino in bottiglia e della lavorazione del metodo classico per la produzione di spumanti. Ma all’interno della villa sono promosse anche attività culturali quali concerti e mostre. Siamo sulle colline di Corno di Rosazzo, dove abbiamo incontrato Tommaso Pace Perusini insieme a sua madre Teresa che, anche in virtù del suo lavoro – è stata docente di conservazione dei beni culturali in Ca’ Foscari – e della sua passione, tiene molto all’aspetto storico-culturale dei luoghi. Tra le altre cose, da alcuni anni anche è presidente dell’ADSI Friuli Venezia Giulia, associazione dimore storiche. Come ci ha ricordato, secondo quanto ha scritto Ippolito Nievo ne Le Confessioni, “il Friuli è un piccolo compendio dell’universo”, un territorio denso di culture diverse e di storia, proprio per il suo essere terra di confine. Questa posizione, scomoda per molti versi che ha penalizzato la regione, è però uno dei motivi della sua stessa promozione. L’azienda infatti sta facendo un lavoro di valorizzazione della qualità legata al territorio e alla comunicazione dello stesso in un’ottica di ampio respiro.
Esiste certamente un legame culturale con la produzione vinicola, quale ne è lo spirito?
“Sono storica dell’arte e restauratrice, come mia sorella gemella, ci ha raccontato Teresa Perusini. Mio zio paterno Gaetano Perusini era professore universitario di arte e antropologia culturale. Mia nonna, Giuseppina Perusini, pittrice e scrittrice. Quindi questa doppia linea è già da generazioni nel DNA familiare. Tuttavia ho sempre dovuto fare i conti o convivere con la gestione dell’azienda considerata prioritaria e quindi con una forte pressione su tutti i membri della famiglia. Per mia sorella e me la scelta di occuparci di storia dell’arte e restauro e non dell’azienda ha causato un’insanabile frattura con nostro padre. Io ho ripreso in mano l’azienda solo dopo la sua morte; mia sorella invece non ha voluto saperne e ha continuato con la sola carriera universitaria. Personalmente ho lasciato parte del lavoro nella società di restauro e dell’insegnamento – che ho continuato solo come docente a contratto a Ca’ Foscari – e ho ripreso in mano l’azienda con l’aiuto di mio marito. Mi sembrava di non poter fare altrimenti perché era qualcosa che avevo ereditato e dovevo lasciare ai miei figli anche se non li avrei mai posti davanti all’aut aut come nostro padre aveva fatto con me e mia sorella.
Naturalmente ho portato nella gestione dell’azienda agricola la mia formazione di storica dell’arte anche perché coltura e cultura si sposano bene come dice la prossimità lessicale. Perciò in azienda abbiamo organizzato mostre d’arte collettive e personali iniziato un percorso di sculture all’aperto. Costruito la cantina con un team innovativo dello IUAV (su un progetto di ricerca MURST) e l’abbiamo fatto decorare da Leon Tarasewicz che nel 2001 aveva decorato il Padiglione Polacco alla Biennale.
La presa in carico dal 2005 in poi anche della azienda e dalla villa di Famiglia di mio marito ha costituito un ulteriore passo in questa gestione necessariamente “bifronte” perché da un lato l’azienda vinicola si è espansa nei nuovi spazi delle antiche barchesse di Villa Pace a Tapogliano, ma per me e mio marito Giacomo de Pace è anche iniziata una nuova sfida con il restauro della meravigliosa ma disastrata villa della sua famiglia nel Friuli Orientale che fino al 1918 faceva parte dell’Impero Asburgico.
Oggi possiamo dire che il progetto è a buon punto, ma resta da fare la parte complessa perché coinvolge diversi attori che è la promozione che prevede la costruzione di reti turistiche con altri soggetti pubblici e privati.”
Facciamo un passo indietro e torniamo alle origini. Come e quando nasce l’attività dedicata alla produzione vinicola?
“La famiglia Perusini è documentata in Friuli dalla fine del 1300, probabilmente proveniente dal centro Italia. Nei secoli successivi appaiono più volte notai e medici nella famiglia ma è dalla fine del ‘700 che si parla di proprietà viticole nei colli orientali. Giacomo Perusini, nonno di Teresa e famoso enologo parla di vigneti di famiglia a Cormons e analizza vini lì prodotti dell’inizio ‘800. È con lui che inizia la specializzazione vinicola di un ramo della famiglia. Giacomo Perusini intraprende la selezione dei vitigni autoctoni, scrive la prima monografia sul Picolit, e un prezioso libretto sulla sistemazione della proprietà di Rocca Bernarda. Muore però durante la I guerra mondiale nel 1915. Sua moglie Giuseppina Perusini Antonini ne raccoglie il testimone e governa l’azienda finché i due figli sono piccoli fra la profuganza dopo Caporetto, le lotte agrarie e la II Guerra Mondiale. I figli Giampaolo e Gaetano continuano poi il lavoro del padre. Veronelli scrive pagine magnifiche sulle sue visite a Rocca Bernarda e su Giuseppina Perusini, che scrive anche l’Artusi del Friuli, Mangiare e ber friulano nel 1962 e poi un libro sulla sua vita Cent’anni nella memoria: muore infatti nel 1976 a 102 anni. La lotta intestina fra i due figli porta alla donazione di tre quarti dell’azienda e il Castello di Rocca Bernarda all’Ordine di Malta da parte di Giuseppina e Gaetano Perusini. Dai 240 ettari originali l’azienda Perusini si ritrova con 60. Con questa azienda Teresa dopo la morte del padre Giampaolo, decide di continuare la produzione di famiglia.”
Su cosa puntate in termini di produzione e come avete immaginato il legame con il genius loci?
“Aziende di piccole dimensioni come la nostra devono per forza puntare su un forte connotazione locale, sul legame con il genius loci, questa è la loro forza e quello che le grandi aziende internazionali non riescono a fare. La nostra azienda in questo è favorita per la profonda conoscenza dei vitigni autoctoni e le tradizioni locali sia agricole sia storiche (Gaetano Perusini, Vita di popolo in Friuli).
Su cosa state investendo in questo momento e quali progetti sono in corso?
“Dal punto di vista agricolo continua la vinificazione dei vitigni autoctoni quali Ribolla, Picolit, Refosco, come anche la vinificazione di nuovi prodotti, ad esempio il blanc de noir e la spumantizzazione conto terzi. Stiamo inoltre mettendo a punto una nuova linea di riserve. Convinti che il vino di qualità nasca prima di tutto dalla qualità del terreno stiamo facendo un investimento importante sui terreni ed è in corso una importante ristrutturazione fondiaria della proprietà immobiliare che intendiamo valorizzare economicamente.”
Dal punto di vista più propriamente culturale quali sono le attività sulle quale state investendo in particolare?
“Tutti dicono che la pandemia ci ha insegnato che non ci si salva da soli, in realtà noi questo lo avevamo già capito da prima e sia nel settore agricolo che in quello culturale stiamo lavorando per creare reti di turismo eno-gastronimico e culturale sul territorio. Il Friuli in questo ha straordinarie potenzialità ancora inespresse, un territorio conservato e dotato di ricche tradizioni culturali ed enogastronomiche in confluiscono tre popoli, rispettivamente italiano, tedesco e slavo.”
Dopo una lunga fase, purtroppo ancora in corso, di chiusura al pubblico, quali sono i vostri progetti a breve?
“La pandemia ha fatto riscoprire il turismo di prossimità, slow, verde, all’aria aperta, fatto a piccoli gruppi con un’offerta esperienziale e dedicata. Su questo stiamo lavorando: turismo slow che coniughi cultura ed enogastronomia. Ad esempio stiamo costruendo percorsi tra le dimore storiche del FVG (ADSI) e i produttori locali d’eccellenza. Tutti ne parlano, ma pochi lo fanno.”
Che tipo di sensibilità state riscontrando in chi si avvicina ai vostri prodotti?
“Sempre più consapevolezza, piacere della scoperta – ha sottolineato Tommaso – curiosità per le storie che ci sono dietro i prodotti. Il produttore deve non solo saper produrre ma sempre più saper raccontare e spiegare le sue scelte: il famoso storytelling. L’attenzione è alla qualità e anche alla scoperta di nuovi sapori ed emozioni. La nostra azienda tra l’altro da sette anni produce solo uve biologiche. In tal senso dopo molti anni legati al mito dei vitigni internazionali l’attenzione al vitigno autoctono e alla biodiversità sta conoscendo una nuova primavera. Penso nel nostro caso alla Ribolla Gialla che è uno dei vini bandiera della nostra azienda che abbiamo anche spumantizzato con metodo charmat e presto adotteremo un metodo classico.”
Come stanno cambiando i gusti con una cultura più consapevole e su cosa punterete?
“Certamente sulla spumantizzazione con metodo classico che però richiede uno stoccaggio di almeno tre anni tanto che il magazzino ristrutturato all’interno della barchessa seicentesca a Tapogliano, è messo anche a disposizione di terzi. L’impegno sarà nella selezione di cloni particolari che si troveranno solo nella nostra azienda com’è il caso delle uve Merlot; e della scelta ad esempio di puntare sul Cabernet franc, vino in realtà non così diffuso in Italia, e che necessita di un’esposizione del vigneto simile a quelli a bacca bianca e che raramente viene defogliato. Il Picolit è però quello che consideriamo il vino di famiglia e che recentemente ha ottenuto 96 punti da Parker. Il sogno è che diventi il Sauternes italiano, ambasciatore di una cultura tutta locale”.
Il percorso enogastronomico e culturale è intrecciato o sono due binari che corrono paralleli?
“I due percorsi sono storicamente e anche individualmente intrecciati nelle nostre vite. Ad esempio le dimore storiche, sia quella di Gramogliano del 1607, sia quella di Tapogliano del 1650 circa, da cui partiamo per le degustazioni e visite nell’azienda erano da sempre nuclei di condensazione della cultura e dell’economia dei paesi in cui sorgevano e questo vorremmo ridiventassero.”
Su cosa state lavorando in questo momento in particolare?
“Su due nuovi vini, un bianco e un rosso che porteranno il nome di Zenta, dal nome della battaglia dove ha partecipato un nostro trisavolo che era particolarmente legato alla dimora storica. Il bianco, ottenuto dalla selezione delle migliori uve di Sauvignon (50%) e Chardonnay (50%), uscirà in commercio fra un paio di mesi, mentre il rosso, ottenuto dalla selezione di uve Merlot (70%) e Cabernet sauvignon (30%) sarà disponibile fra circa 18 mesi.
Periodo di resilienza e di sfida. Qual è la vostra?
“La possibilità di fregiarsi dei cru, secondo il sistema francese, un sogno del nonno che in Italia non avuto corso. Le premesse ci sono perché i vigneti migliori di Rocca Bernarda, Monte Santa Caterina e Monte San Biagio sono stati fatti analizzare dall’Università di Udine e sono stati riconosciuti come terroir del tutto simili. Il problema è che per il riconoscimento serve un brand forte, quindi un vino speciale”.
Questo è l’augurio, sperando di assaggiarlo. Prima di salutarci, con la promessa di incontrarci in azienda, ci accompagnate a visitare la Villa anche solo in digitale per il momento?
“In attesa di visitarne gli spazi vi racconto qualcosa che ha soprattutto il sapore del tempo. Villa Pace si trova nel Centro del piccolo paese di Tapogliano situato nella pianura friulana vicino ad un guado del Torre. Il paese è a pochi chilometri da Palmanova e Aquileia, entrambe siti Unesco, a una ventina di chilometri dalla storica spiaggia dell’impero austroungarico di Grado. La villa dominicale è isolata al centro del parco chiuso da un muro in pietra su cui si appoggiano – a est ed ovest – due barchesse. La grande barchessa ad est è probabilmente quanto resta del primitivo impianto della fine del XVI secolo; la villa deve infatti la forma attuale a due interventi costruttivi uno della seconda metà del Seicento e l’altro della metà Settecento. Committente della costruzione seicentesca fu Carlo Maria Pace v. Friedensberg, Feldmaresciallo di Leopoldo I, che si distinse nelle guerre contro i Turchi dalla liberazione di Vienna (1683), a quella di Budapest (1686), alla battaglia di Zenta. Da allora il conte Carlo Maria ottenne anche il titolo di libero barone dell’Impero e l’onore di inserire l’aquila bicipite nel proprio stemma. A questa prima fase la villa deve la forma cubica chiusa dalle 4 torri angolari che si ritrova anche nella villa Colloredo a Susans e Dobrovo e nella villa Coronini a Vipacco. L’accesso al piano nobile era previsto in origine attraverso uno scalone esterno come si vede in molte ville friulane del Seicento, come nella villa della Torre a Ziracco, ma le due torri angolari verso il giardino, dove era previsto lo scalone, non vennero mai completate e alla metà del Settecento il progetto originale subì una profonda modifica. Committente dei lavori settecenteschi fu un altro Carlo Maria Pace, famoso agronomo, commendatore dell’ordine di santo Stefano e ciambellano dell’Imperatore. Nel 1747 Carlo Maria sposò Giuliana di Edling la dama di corte preferita da Maria Teresa e forse per questo inizia anche una profonda ristrutturazione secondo il nuovo gusto rococò. Verosimilmente i lavori terminarono verso il 1751 data che si legge sul grande dipinto nel soffitto del salone al piano nobile che raffigura La gloria della giustizia e la pace come metafora della gloria della famiglia, ed era un tempo attribuito ad Antonio Guardi ma più probabilmente è opera dello Scajaro, allievo di Tiepolo (Pavanello). A questa fase si deve la costruzione del bellissimo scalone elissoidale e la decorazione del salone a doppia altezza, secondo Cristoph Ulmer il più bello del Friuli. A Carlo Maria si devono anche verosimilmente le pitture murali recentemente scoperte in una sala del piano nobile raffiguranti un paesaggio agreste e i porti di Tolone e Marsiglia (dalle incisioni di G. dell’Acqua da dipinti di J. Vernet) forse per ricordare che Carlo Maria fu uno dei primi nobili friulani a investire nel Loyd Triestino.
Prima di salutarci un ultimo sguardo è per le pitture murali che raffigurano i viaggi di Cook con scene tratte dal libro di Raynal, uno dei primi libri scritti contro la schiavitù in Europa. Entrambe queste raffigurazioni sono un unicum in Italia, sono state pubblicate sul log della Cook Society di Londra.”
a cura di Ilaria Guidantoni