A Milano, a Palazzo Reale, c’è tempo fino a domani 19 gennaio, per visitare la grande retrospettiva De Chirico, il Pictor Optimus, greco errante, un viaggio tra gli enigmi e i misteri della pittura di Giorgio De Chirico, inventore instancabile, tra i più geniali e controversi protagonisti dell’arte del ventesimo secolo. Chi è avvezzo a frequentare il mondo dell’arte moderna e contemporanea di mostre su De Chirico ne avrà viste fin troppo tanto che soprattutto in una metropoli con tanta offerta la tentazione di soprassedere c’è. Sarebbe un peccato perché l’esposizione è ricca con oltre un centinaio di opere, ben documentata nei pannelli esplicativi che raccontano il personaggio e l’uomo oltre l’arte e perfino nelle didascalie dei quadri. Realizzata dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, Marsilio e Electa, è stata curata da Luca Massimo Barbero, in collaborazione con Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, nata nel 1986 per volontà di Isabella, vedova del pittore con sede nella Casa-Museo dell’artista, g(ià sua abitazione e studio di Piazza di Spagna a Roma).
La stessa audio guida è puntuale e sintetica; mentre l’allestimento su fondo bianco ottico, come un unico pannello a correre, se accompagna il senso di continuità dell’opera dell’artista con la sua idea fissa di ripetizione e stempera la ricchezza di colore, appare un po’ freddo, poco incisivo forse anche perché nella ricchezza del Palazzo sembra un muro bianco. Probabilmente voluto.
La mostra completa il ciclo voluto dal Palazzo, dedicato ai maggiori artisti del Novecento, come nel caso di Carrà, soprattutto là dove ci sono questioni aperte e allo stesso tempo il rapporto con la classicità della modernità che, nel caso dell’artista nato a Volos in Grecia nel 1888 e morto a Roma nel 1978, determina una rottura nella tradizione di impatto europeo. Il percorso è costruito sulle immagini e sulla sua pittura “vista da vicino”, dal mondo della mitologia greca carico di memorie famigliari al rapporto con la figura materna, “la centauressa” Gemma de Chirico, la madre, alla scoperta rivoluzionaria e inaudita della pittura metafisica che influenzò tutti i pittori surrealisti e folgorò, tra gli altri, René Magritte, Max Ernst, Salvador Dalì.
L’’esposizione è stata realizzata grazie ad opere provenienti dai principali musei internazionali tra cui il il Metropolitan Museum of Art di New York, la Tate Modern di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, The Menil Collection di Houston, collezioni private e Musei Italiani come la Pinacoteca di Brera, il Museo del Novecento di Milano, il MART di Rovereto, la GAM di Torino, la Peggy Guggenheim di Venezia, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
La Grecia mitica per De Chirico si confonde con la vita stessa che è, a sua volta, letta alla stregua del mito come si evidenzia in alcuni quadri dove il viaggio dei fratelli diventa quello degli Argonauti.
La Grecia e il mito classico, declinati in modo diverso, saranno sempre presenti anche nel sentimento di grande nostalgia che lo accompagnerà tutta la vita nei confronti della sua infanzia e lo spingerà a muoversi continuamente, ogni volta strattonato tra la voglia di partire e il rimpianto per la terra lasciata, come un nuovo Ulisse, piè veloce ma allo stesso tempo, l’eterno ‘ritornante’.
Sarà a Torino, a Parigi a più riprese, a Ferrara, Firenze, Roma e Venezia, oltre una lunga permanenza negli Stati Uniti e ogni volta si farà ispirare dai luoghi in un nomadismo fatto di malinconia e brama per la novità.
Significativo il tema dell’autoritratto che non risponde solo ad una matrice narcisistica quanto alla lettura precoce dell’Ecce Homo di Nietzsche, filosofo la cui riflessione lo accompagnerà costantemente e che l’artista riterrà incompreso dai più.
I ritratti mettono al centro la famiglia, in particolare la madre, in mostra anche in una versione nella quale è affiancata all’autoritratto di De Chirico. Il tema familiare è essenziale nella sua poetica e nella sua visione metafisica anche se non lo accompagnerà per sempre.
Nel 1911 si trasferirà a Parigi dove la sua svolta Metafisica lo farà assurgere ad autorità nel campo dell’arte, accolto con entusiasmo soprattutto da André Breton e la sua cerchia. L’ispirazione metafisica viene definita una straordinaria invenzione che Francesco Arcangeli nel catalogo della Biennale del 1948 decreta come la più grande rottura del gusto europeo dopo l’impressionismo ed è con questo nuovo approccio che il mondo familiare si allontana dalla pittura dell’artista; mentre i manichini annunciano la sua presenta nel quadro, in modo trasfigurato.
A Ferrara, dopo un’iniziale malinconia e il rimpianto per la città di Parigi e per gli intellettuali con i quali mantiene a lungo un rapporto, inizia un periodo di fascinazione.
Tra il 1915-1919 vive pienamente una città che ama molto, lasciandosi ispirare dalle sue architetture rinascimentali e dai vicoli del ghetto. La sua consolazione divengono le pasticcerie. Così qui elabora una metafisica del quotidiano che ritrae oggetti comuni come il biscotto ferrarese, i crumiri e il pane tipico della città detto “coppia”, una sorta di X, abbinata all’occhio dentro un biglietto da visita, che esprime un simbolo contro il malocchio, legato alle credenze superstiziose dei fratelli De Chirico. C’è anche un’ispirazione più nobile però, quella legata ancora una volta a Nietzsche che ritiene la X il simbolo dell’enigma, cuore della lettura della realtà per De Chirico.
Gli oggetti di tutti i giorni come poi le sue nature morte hanno sempre un grande respiro, inseriti su sfondi di grandi architetture, talora riconoscibili, come il Castello degli Estensi di Ferrara o il mare. O in un quadro dove si intuisce la sua permanenza a Firenze, che pure ha amato molto, una Tempera su tela che cita la città dei medici con i suoi alti portici.
Il percorso della mostra continua attraverso gli inserimenti di elementi mitologici in contesti urbani, seppure idealizzati come Arianna e l’allegoria della malinconia per poi iniziare la serie delle Piazze d’Italia dove il tempo appare rarefatto, sospeso eppure scandito da orologi e la presenza di ombre.
L’abbandono della metafisica e ritorno alla classicità, fanno sì che da essere l’artista più noto della sua generazione diventi un artista detestato soprattutto dai Surrealisti che vivono il suo sguardo al passato come un tradimento e un arretramento. Sono gli anni in cui comincia il tema della statua vivente come in un celebre Autoritratto del 1924-25.
Il mondo classico che è per eccellenza l’inventore del teatro occidentale come categoria dello spirito, della rappresentazione del mito e non solo come una manifestazione artistica, entra in gioco in tal senso e de Chirico elabora una propria versione del dramma epico.
Soffermandosi sulle opere, da sottolineare La sala di Apollo del 1920 a metà tra classicità e metafisica e la serie dei manichini che contengono architetture o stanze con paesaggi e architetture all’interno che, a mio parere, risentono del clima surrealista.
Piano piano si fa strada nella poetica di De Chirico anche il tema della natura con citazioni di artisti dell’Ottocento ad esempio di Böclink e in tal senso ci si può soffermare sulla serie delle ville romane come l’Ottobrata, la gita fuori porta nelle belle giornate che regala l’ottobre romano.
Interessante l’opera Il figliol prodigo, copertina tra l’altro del catalogo della mostra milanese 1970 che fu ospitata nelle stesse sale. Si tratta di un’opera del 1922 elaborata a partire da un disegno del 1917 ambientato a Firenze, come mostrano gli alti porticati di via Indipendenza, nella quale la parabola evangelica è riletta in chiave metafisica. La statua in abiti ottocenteschi rappresenta il padre sceso dal piedistallo alla cui base De Chirico inserisce la propria firma e la data, per abbracciare il figlio-manichino. Quest’ultimo è una presenza altamente simbolica, a metà tra robotica e futuro da un parte e senza tempo, dall’altra, allusione del classico.
L’attività di de Chirico procede frenetica tanto che Giuseppe Ungaretti parla dell’artista come di una volpe che punta solo al successo, un peccato secondo il poeta essendo de Chirico dotato di una grande potenza.
L’artista si trasferisce poi a Parigi definitivamente nel 1925 ma i rapporti con gli intellettuali sono ormai compromessi per il presunto tradimento. Ora manichini riempiti di oggetti e architetture, i mobili nei paesaggi con una composizione spesso suggestiva e perturbante, straniante che sembra risentire appunto delle riflessioni sul tema del sogno di quegli anni.
Nel frattempo si fa strada il tema dello spaesamento e si trasforma il sentimento della nostalgia in una pittura gioiosa.
“Parigi – dichiara d’altra parte l’artista – è come Atene al tempo di Pericle” che s ente una forte appartenenza alla Francia per la modernità rispetto all’Italia.
In mostra i grandi nudi classici, una serie limitata realizzati tra il 1926 e 1927, stemperando il classicismo con toni metafisici. È per altro un soggetto che si diffonde in quegli anni in Europa, anche se de Chirico è distante dal monumentalismo europeo nell’affrontare il tema.
L’attività frenetica gli impedisce spesso di rifinire i quadri e viene richiamato all’ordine dal proprio mercante che gli dice che il gusto dei collezionisti è attento ormai ai particolari.
A partire dagli anni Trenta ci sarà un momento molto difficile legato alla crisi del 1929; tra l’altro il suo mercante Rosenberg dichiara fallimento; finché nel 1936, grazie alla sua inalterata fama, riesce ad imbarcarsi per gli Stati Uniti. Si tratta di un soggiorno lungo ed entusiasmante anche per le importanti commissioni che riceverà sia nel campo della moda sia dell’arredamento. Torna a mettersi in gioco sperimentandosi con architetture lineari e allungate mentre i soggetti da gladiatori e personaggi del mito diventeranno ad esempio giocatori di polo e, in generale, si scioglie dalla logica realtà avvicinandosi sempre più all’enigma puro.
Nell’ultima parte della mostra appaiono i suoi celebri cavalli, altro tema frequente, scelta di classicismo ellenico in opposizione al surrealismo, ma il mito è decontestualizzato e ha un approccio più bozzettistico, leggero, moderno.
E ancora degli autoritratti in costume barocco che si affiancano alle vedute di Venezia, una in mostra, altra città del suo peregrinare, una Serenissima molto ornata, densa, materica, coloratissima, lontana dalla visione leggera e ariosa del vedutismo, ci appare soprattutto una città in maschera.
Curiosa la sala dedicata ai Bagnanti misteriosi, serie pubblicata nel 1934 su una rivista dal suo amico Jean Cocteau, la cui ispirazione ha dichiarato De Chirico, è nata dalla visione di pavimenti tirati a lucido che sembravano bagnati.
I soggetti mutano, si reinventano ma il senso del gioco e dell’enigma tipico della visione dell’oracolo greco, insieme alle ripetizioni, caratterizzano l’arte di questo grande del Novecento. Andy Warhol scrisse che probabilmente c’era una ragione legata al successo ma anche al bisogno della ripetizione in quanto tale come esercizio dell’essere che faceva parte della sua cultura ancestrale greca.
In tal senso mi pare emblematico quanto ha scritto Maurizio Calvesi, uno dei massimi studiosi dell’artista, che ha definito la sua poetica “Metafisica continua”, sviluppata nelle sue diverse declinazioni, a partire dalla nascita della Metafisica a Firenze nel 1910, dalle Piazze d’Italia e dagli Interni ferraresi, fino ai manichini, ai Gladiatori, alle ricerche sulla materia pittorica, ai suoi paesaggi e alle nature morte “barocche”, al dialogo con i grandi maestri della storia dell’arte e alle ultime opere neometafisiche.
a cura di Ilaria Guidantoni