Lacci, diretto da Daniele Luchetti, selezionato come film d’apertura della 77ma edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica – Premio RB Casting a Linda Caridi – è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2014 scritto da Domenico Starnone, autore della sceneggiatura insieme al regista e Francesco Piccolo. Un film sulla difficoltà di stare in coppia e sull’impossibilità di lasciarsi: lacci sono quelli che ci legano nel bene e anche in ricordo simpatico ma i lacci veri, quelli che possono diventare un cappio li fabbrichiamo da soli. Non il solito film sulla crisi del matrimonio, fatto di tradimenti e accomodamenti, di mancanza di coraggio soprattutto al maschile, di colpe e responsabilità spesso condivise. Tutto questo c’è sicuramente ma il nucleo è altro: è
la ricerca di quello che non si vuole, la battaglia di una vita, vinta a costo di perdere se stessi, senza che sia davvero il nostro desiderio. E’ questo il cerchio perverso che la figlia dei protagonisti, Giovanna Mezzogiorno nell’interpretazione di Anna da adulta, che mette in luce accusando tanto la madre Vanda (Alba Rohrwacher da giovane, Laura Morante da anziana) quanto il padre Aldo (Luigi Lo Cascio, quindi Silvio Orlando), fedifrago quest’ultimo che se fosse rimasto con l’amante invece di tornare a casa avrebbe salvato tutti. Sgomenta la confessione finale di aver cercato di riportare a casa un uomo per una scommessa al contrario, un senso del dovere ostinato in nome di un patto, non di una reale responsabilità né tanto meno per amore. Non è la storia quello che conta nel film ma la sottigliezza delle dinamiche, per nulla scontate. Le interpretazioni ben calibrate anche nei
momenti di esasperazione, sempre vissute fino in fondo, scendendo di tono, andando in profondità invece che salire, sopra le righe. Una buona trovata il cambio degli attori che, per quanto noti e riconoscibili, funziona. Impeccabile l’ambientazione e i dettagli degli appartamenti che sono coprotagonisti nel tempo della storia a confermare quanto la casa rappresenti i confini dell’io. Il clima è di pesantezza sempre, sottolineato dall’uso delle luci, dalla penombra costante anche in pieno giorno e da un’illuminazione che cade dall’alto pesante. Sembra non ci sia nulla da recuperare anzi questa ostinazione non ha nulla di edificante né di consolatorio, tanto meno il dolore di una donna spezzata che la distrugge e distrugge perfino i figli. Certo
“è difficile soffrire in modo simpatico” e siccome ogni relazione che costruisce seriamente ha in sé il rischio del tradimento, del dolore, del mettersi in gioco, ogni rapporto per un verso o per l’altro sembra destinato al fallimento. Il protagonista maschile non costruisce un’altra storia per non rischiare di essere lasciato e torna per non rispondere, perché non riesce a separarsi dai figli, forse più perché non ha il coraggio di rifiutarli fino in fondo che per un autentico amore o senso di responsabilità. Lucchetti non lascia nulla di consolatorio, nessun dubbio sulla crudeltà della famiglia, soprattutto nell’ultima parte dove il gesto distruttivo è emblematico ed è l’unico che crea complicità tra i due fratelli, che non sembrano ritrovarsi autenticamente. Solo qualche minuto di troppo, con alcune scene che potrebbero essere sfrondate.
Prima pellicola italiana ad aprire la Mostra dai tempi di Baarìa (2009), è nelle sale cinematografiche dal 1 ottobre scorso.
a cura di Ilaria Guidantoni