Le startup innovative italiane nascono grazie ai soldi dei fondatori e il ricorso ad altre fonti di finanziamento nel tempo è comunque ancora molto limitata, anche nella fase di vita successiva. Lo si legge nella Relazione annuale al Parlamento sullo stato di attuazione e sull’impatto della policy a sostegno delle startup e delle pmi innovative firmate dal ministero dello sviluppo economico Carlo Calenda e presentata nei giorni scorsi.
Al momento della fondazione dell’impresa, infatti, le possibili fonti di finanziamento alternativo, e quindi i cosiddetti “Family, friends and fools” (donazioni di parenti e amici), il finanziamento pubblico nazionale e locale, il credito bancario e l’investimento in capitale di rischio da parte di privati (venture capital, business angel, altre aziende), sono state utilizzate da non più del 10% delle startup innovative che hanno partecipato all’indagine ministeriale. Donazioni e finanziamento pubblico nazionale si assestano a livelli molto bassi in questa fase: relativamente più utilizzati sono i canali del finanziamento pubblico regionale e locale e del finanziamento da parte di privati.
Pià nel dettaglio, l’indagine, condotta a maggio 2016, rivela che all’atto della fondazione, le startup innovative italiane fanno prevalentemente appello alle risorse proprie dei soci: nel 68,4% queste hanno coperto il totale dei fondi necessari all’avvio, e nel 74,2% una quota maggioritaria. Dall’indagine emerge che nel 43% dei casi la società è stata formata al massimo da due soci, ma solo per il 10,1% da un unico socio. Significativa (19,1%) la quota delle imprese costituite da oltre 5 soci. Nel 77,2% dei casi, nessuno dei soci fondatori aveva abbandonato la compagine sociale al momento della rilevazione. Poco più del 30% delle rispondenti ha accolto almeno un nuovo socio, una percentuale che tende ad aumentare anche oltre il 40% con la crescita dell’età dell’impresa e del valore della produzione.
Con il passare del tempo, la quota di imprese che ricorrono esclusivamente o prevalentemente a risorse proprie tende a riassorbirsi, pur rimanendo dominante (53,2% esclusiva, 63,3% maggioritaria). Le fonti alternative che aumentano di importanza sono i finanziamenti pubblici, in particolar modo nel Mezzogiorno dove quasi il 10% dei partecipanti all’indagine ha avuto accesso a finanziamenti nazionali (si presume, i due bandi Smart&Start).
Rimane ridotta la quota di imprese che ha ricevuto investimenti in equity da parte di privati: quasi il 90% non ne ha raccolti affatto. Le imprese costituite da più tempo e con un valore della produzione più elevato tendono a ricevere maggiori fondi in capitale di rischio, che in questa categoria costituiscono una quota maggioritaria delle risorse impiegate da circa un’impresa su sei.
Esperienza e valore della produzione fanno ancor più la differenza per l’accesso al credito bancario, la fonte che più di tutte sembra avere inciso nelle dinamiche di approvvigionamento finanziario delle startup innovative in fase di crescita. Il 23,2% delle imprese ha avuto accesso a un prestito, percentuale che cresce al 30,3% per quelle costituite prima dell’entrata in vigore della normativa e al 46,3% per quelle con valore della produzione superiore a 500 mila euro.
Anche se molte si dichiarano interessate, all’atto pratico raramente le startup dichiarano di aver fatto passi concreti per aprire il proprio capitale di rischio: dal momento della fondazione il 68,4% delle imprese intervistate non ha cercato nuovi finanziamenti da venture capital o business angel, o avviato campagne di equity crowdfunding. In genere, ciò è accaduto perché l’impresa non riteneva necessarie ulteriori fonti di approvvigionamento (43,9%); non vanno però trascurate altre possibili motivazioni, come la sfiducia nel mercato del venture capital e nelle possibilità dell’impresa stessa di accedervi (12,9% e 14,9%) e la riduzione dell’autonomia decisionale dei soci fondatori (13,5%) (Figura 3.2.1). Circa il 12% delle startup innovative, pur avendo ricevuto almeno un’offerta di investimento da soggetti esterni, l’ha poi rifiutata. Le ragioni sono variegate: un’offerta troppo bassa (24,9%), clausole contrattuali troppo penalizzanti per i soci (22,4%) e un’interferenza eccessiva dell’investitore nell’azienda, tema sentito soprattutto dalle imprese costituite da meno tempo.