Un neonato che affoga, poveraccio, dicevo. Stringevo le spalle, in fondo. Che m’importava? Non voglio sentire, dicevo. È la vita, questa, che non capiti a noi la vita! Che non ci capiti per nulla. Ma l’ignoranza… sì, che continui a capitarci l’ignoranza! Ma la vergogna, un senso claustrofobico e nauseante d’ignava vergogna, mi sussurrava parole di morte: sei vivo, sei vivo, giovane mio! Era come se provassi fatica a coinvolgermi, a preoccuparmene un po’. La vita, dicevo. E stringevo le spalle. Poveraccio. E pensavo ad altro, a qualcosa che mi pareva più vicino a me che quel neonato affogato nel mare: ma lui mi era vicino, ero io che mi allontanavo. Ci sono passati, Teresa, che muoiono ora, nel tempo che viviamo. Attanagliati nell’inconsapevolezza della nostra arroganza che ci fa voltare, la presunzione delle nostre convinzioni che ci conducono all’autoconvincimento. Siamo una schiera impaurita che devo costruirsi motivi di coraggio e li trova nella menzogna dell’indifferenza. Cos’è un neonato che muore, se non capita a noi? Una fatalità o la tragica legge della vita, noi abbiamo firmato un foglio di esenzione, siamo riformati, la trincea è per gli altri, la vita, anche la vita è per gli altri. E così, voltati verso un falso compiacimento, votati a una finta commiserazione, continuiamo il nostro tempo, la nostra morale, la nostra plastica verità. Quel che ci manca, Teresa, è l’immedesimazione. Se a ogni accadimento ci tuffassimo negli altri, per fuggire alle nostre convinzioni, alle nostre paure, forse non vedremmo che siamo tutti uguali? Tutti disperatamente precari, tremendamente impauriti, soli. Noi invece crediamo di combattere con l’orgoglio isolato di uno sfrenato egoismo -sfrenato ma patologico, ingiusto, vile- l’energico fluire della morte che ci tira a sé nella sofferenza altrui, senza chiederci altro che un controbilanciamento: ma noi, invece che combattere con la nostra gente, invece che appressarci al bisogno di chi non ha o di chi non ha avuto o non avrà, ci lasciamo impunemente strattonare, tirare a lei maledetta, dandole le spalle nell’illusione che non guardare significhi fuggirle, che rifiutare significhi non avere, che simulare significhi essere. Un neonato che affoga nel mare, Teresa, sei tu, sono io, siamo tutti noi. E quella madre urlante non è certo una disgraziata migrante alla ricerca di un’illusoria fortuna, ma è nostra madre, la nostra, capisci? E allora forse anche noi piangeremmo tra le sue braccia, anche noi moriremmo cullati, abbracciati, soffocati, dai flutti incessanti, fatali, dell’abisso. Anche noi avremmo, per l’ultima volta, pianto di neonati. Poi bolle d’acqua. Poi, un lunghissimo silenzio.
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Bernardo Giusti, nato a Firenze nel 1990, giovane speranza tra i romanzieri italiani ha pubblicato recentemente “Bivium” Edizioni Masso delle Fate. Teresa è nata da poco e Bernardo Giusti ha scelto Bebeez, nelle scorse settimane per condividere l’attesa per la prossima venuta, e adesso la gioia della presenza fisica.