di Simone Strocchi,
managing partner di Electa
Negli Stati Uniti stiamo assistendo a una effervescente prolificazione di Spac: oltre 80 miliardi di dollari è l’attuale potenza di fuoco complessiva di questi veicoli a caccia di società cui proporre accesso al New York Stock Exchange (si veda altro articolo di BeBeez, ndr). Ci si domanda se questa montagna di dollari in simultanea ricerca di imprese target che sembra configurare una “bolla”, in qualche modo possa essere indirizzata anche su società italiane, aprendo una strada per la quotazione del Made in Italy sui listini borsistici Usa e sottraendo qualche eccellenza imprenditoriale autoctona da prospettive di quotazione sui mercati nazionali.
Il teorema di chi sviluppa prospettive di facile accessibilità di capitali dai mercati nordamericani appare rinforzato dalla constatazione che l’impennata di Spac americane si configura contestualmente alla rarefazione delle Spac italiane, che hanno conosciuto un eccesso di raccolta nel 2017-18, a cui è conseguita una stagione di diffusi insuccessi nel biennio 2019-20, mettendo in crisi, a mio avviso frettolosamente, il modello nazionale “tradizionale”. Ma è noto, siamo un popolo di esterofili e lo scenario che contempla l’americanizzazione delle nostre PMI sembra eccitare la fantasia di molti. Tuttavia, penso che le Spac americane possano efficacemente concentrarsi su società italiane (ed europee) solo ed esclusivamente in determinate premesse e circostanze.
In questo senso mi limito a formulare due considerazioni. La prima è banalmente economica: le diluizioni generalmente proposte dai meccanismi delle Spac americane sono molto più forti rispetto a quelle più morbide proposte nelle formule italiane (già soggette a critiche feroci), per cui, salvo operazioni totalitarie, non appaiono facilmente digeribili in Italia, se non abbinate a riconoscimenti di premio molto significativo sulla valutazione dei target. La seconda considerazione è più tecnica: la fusione transoceanica tra Spac americana e target italiana è un processo da inquadrare con attenzione a svariate normative civilistiche e fiscali tale per cui non sono mai operazioni banali e di semplice esecuzione. Alla luce di questi elementi, l’effettiva applicazione delle Spac Usa su pmi italiane appare oggettivamente più limitato.
La mia convinzione è che le Spac made in Usa potrebbero essere competitive in Italia e in Europa se proposte come holding di consolidamento di società attive in Paesi diversi, oppure per realizzare operazioni su target attivi in settori o progetti in fase di sviluppo o difficili da valutare in Europa, che invece in Nord America hanno una appetibilità maggiore, come nel caso ad esempio delle tech company, dell’entertainment o del biotech.
Ridimensionato il “sogno americano”, possiamo però trovare conforto nel fatto che in Italia le Spac, nella loro essenziale funzione di apporto di capitali e accesso al listino, non sono sparite e, anzi, si sono evolute facendo tesoro della curva di esperienza. Spiccano, infatti, format avanzati come le prebooking company Ipo Challenger e le Spac in cloud con cornerstone investor supportate da un ecosistema di investitori che si è arricchito di Eltif e, più in generale, di capitali stimolati dai Pir. Da operatori antesignani e promotori di questi modelli evoluti di indubbio successo, siamo convinti che queste nuove formule evolute di prebooking italiane, che hanno superato le inefficienze delle Spac tradizionali differenziandosi dal modello Usa ben si prestano a sostenere le nostre pmi eccellenti, accompagnandole alla quotazione e supportandole nei progetti di sviluppo sui mercati. Come il nostro ecosistema è in condizione di sostenere investimenti per centinaia di milioni di euro in un’ulteriore selezione di imprese virtuose.
Ecco perché è il momento di supportare questi modelli evoluti di autentica finanza industriale da espandere e sostenere in termini sistemici. Ringraziamo il richiamo del mercato americano per aver rilanciato la curiosità dei media sullo strumento Spac e non ci sottrarremo dall’indirizzare, ed eventualmente assistere, imprese nazionali che per settore industriale e fase di sviluppo risultino più attinenti ad un appetito di investitori nordamericani; ma per tutto il resto, per le nostre pmi eccellenti, riteniamo che l’Italia abbia già gli strumenti, le competenze e i capitali per essere vincente. Troppe volte dimentichiamo che esiste un “sogno italiano”: lo possiamo realizzare e condividere a casa nostra, dove ci sono risparmi privati ingenti e realtà imprenditoriali con potenzialità di crescita importante; quelle realtà che selezioniamo e riusciamo a sostenere investendo in leva di competenze con formule di finanza industriale, aiutandole ad esprimersi, valorizzarsi e quotarsi in Italia e rifiutando il teorema che l’eccellenza italiana per essere riconosciuta debba per forza sognare di essere preda di capitali e player stranieri.