La casa natale del noto artista livornese – che abbiamo avuto la fortuna di conoscere con una visita privata (in questo periodo è aperta solo su appuntamento) – non racconta solo le origini di Modigliani ma anche un ambiente e un momento storico a Livorno. È il mondo degli ebrei livornesi, colto e ricco ad in tempo, una congiuntura fortunata nella storia della borghesia che ha lasciato un segno profondo nella storia della città. È qui, in un quartiere residenziale agiato, che nasce Modì il 12 luglio 1884, sul tavolo di cucina, l’unico ambiente che potesse garantire una buona igiene. Il
momento è singolare perché quando la mamma del nostro artista ha le prime doglie arriva l’ufficiale giudiziario per pignorare la casa in seguito ai debiti accumulati dal padre; ma essendo la nascita e la morte due momenti sacri, vengono requisiti solo i beni che, raccolti intorno al bambino, fanno sembrare la sua nascita quella di un principe. Modì è circondato di oro e argento. In origine tutta la palazzina, compreso il giardino, era di proprietà della famiglia, mentre ora resta solo il piano nobile, con le stanze di rappresentanza, dove tutto è rimasto inalterato, dai pavimenti in graniglia alla struttura con le stanze di passo, paradossalmente anche grazie all’incuria. Una ventina d’anni fa fu comprata da due galleristi livornesi, Guido e Giorgio Guastalla (una delle sedi della galleria è a Milano) con l’obiettivo di conservarla nell’assetto originario facendola rivivere.
La famiglia Modigliani era ebrea venuta a Livorno nel 1848 dopo le rivoluzioni;
qui trovò rifugio dal Papa. Il libro di Corrado Augias su Modigliani racconta che avevano acquistato dei terreni sui Colli Euganei ma il divieto per gli Ebrei di possedere beni li costrinse a riparare in una città che li proteggeva quale Livorno come si evince dalle sue leggi.
Nel Museo ebraico della città sono infatti custodite le originali Livornine istituite da Ferdinando dei Medici che rendevano Livorno una bolla per gli Ebrei.
Niente divieti ma anzi un invito a insediarsi nella città dove oltre 8mila persone si trasferirono gradualmente, soprattutto dopo l’Unità d’Italia. La mamma di Amedeo, Eugénie Garsin era marsigliese e la sua famiglia aveva seguito il destino di molte altre nella migrazione dalla Spagna, al Portogallo, quindi a Livorno e poi a Marsiglia con la lavorazione del corallo e del sapone. La città toscana aveva un’attività fiorente nei due settori – c’era infatti via del sapone – che poi subirono una decadenza. Gli Ebrei eccellevano anche nel settore della carta, del tabacco e del commercio del caffè tanto che qui fu aperta la prima bottega del caffè. La famiglia Modigliani, ebrea romana, si distinse per i fratelli Giuseppe Emanuele, socialista che prese parte civile nel delitto Matteotti, grande schermidore (la città ha una tradizione centenaria nella scherma); Margherita, dedita alla famiglia; Umberto, ingegnere minerario e poi Amedeo grande studioso, che inizia il Liceo classico ma si ferma alla V ginnasio sia per ragioni di salute – affetto dalla tubercolosi – sia perché la sua passione è il disegno. Infatti era solito ritrarre gli ospiti della casa. È allievo di Guglielmo Micheli, discepolo di Giovanni Fattori. A casa respira un’aria aperta, laica e colta: la mamma apre nell’appartamento una scuola di francese e cultura e incoraggia i figli alla libertà. Dopo la partenza del marito per lavoro crea una sorta di pensione e alimenta una tradizione in città di donne ebree libere e intraprendenti non essendo il matrimonio un sacramento ma solo un contratto. Così risolleva le sorti della famiglia e incentiva gli studi del figlio che studia all’Accademia delle Belle Arti di Livorno e poi all’Istituto di Belle Arti di Firenze, finché poi partirà per Parigi. Essendo consuetudine della casa avere un fotografo, girando per le stanze seguiamo la vita di Amedeo. La sua ‘fuga’ a Venezia, tredicenne e quindi maggiorenne per la cultura ebraica, ma non per lo stato italiano, da dove i gendarmi lo rimanderanno a casa. A Parigi condurrà una vita bohémienne, scapestrato, malato ma libero. Proverà a tornare a Livorno ma ne resterà deluso
Nella sua città Fattori aveva infatti monopolizzato l’arte. A Parigi essenziale l’incontro con Brancusi: d’altronde Modì affascinato da Michelangelo inizia come scultore ma la polvere del marmo è troppo pesante per i suoi polmoni. “Costretto” alla pittura in un certo senso farà del nudo la sua cifra caratteristica e la riproduzione del Nudo rosso ci segnala un simbolo dopo essere stato venduto per 176 milioni dollari, con i colori del rosso e azzurro che ricordano quelli delle madonne classiche.
Le foto dei ritratti mettono in luce, invece, la verosimiglianza con l’anima del soggetto più che con il volto, come gli occhi vuoti della compagna Jeanne Hebuterne, che ne dichiarano la fragilità, ritratta con forme morbide o i capelli corti à la garçon de L’amazzone dai tratti spigolosi, mentre il ritratto di Max Jacob ci rivela un dandy e via di seguito.
Una vita vissuta in accelerazione. Morirà ad appena trentacinque anni – è sepolto al cimitero Père Lachaise di Parigi – lasciando un segno indelebile. L’amico e artista Chaim Soutine ne parlerà come de “Il nuovo Socrate livornese”.
Prima di lasciare la casa possiamo respirare l’eredità dell’ispirazione che Modì ha lasciato: una stanza è allestita a galleria legata al d’après, senza che ci sia nessuna voglia di imitazione e qui incontriamo artisti del calibro di Enrico Baj e Mimmo Rotella.
a cura di Ilaria Guidantoni