Le pietre, il marmo protagonista, ma anche la resina, dialogano con la natura, rendendo l’arte astratta dello scultore americano, Ron Mehlman, che si divide tra New York e Pietrasanta, incarnata allo stesso tempo. Una sorta di Land art, dove in una sorta di osmosi, le line astratte si ispirano e diventano allo stesso tempo parte del paesaggio, come quando al tramonto riflettono la luce e in alcuni casi si lasciano attraversare creando un’opalescenza di grande suggestione.
Vincitore tra l’altro nel 2014 della XXIV° Edizione del Premio Internazionale “Pietrasanta e la Versilia nel mondo“, la sua arte supera il confine tra arte astratta e concreta come fra contemporaneità e tradizione anche perché Pietrasanta e le cave di marmo della zona trasudano una storia forte come quella di Michelangelo che come nel caso del grande scultore italiano intravede nella materia la protagonista che in qualche modo detta la linea.
E’ certamente l’artista che vede qualcosa che nessun altro riuscirebbe a immaginare nel rispetto delle potenzialità naturali del materiale sia esso marmo, travertino, onice, legno o bronzo al cui colore, paragonabile alla tela del pittore, Ron aggiunge degli inserti colorati.
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Nella lavorazione c’è una grande attenzione per la manualità, per il valore dell’artigianato e dell’idea di bottega di tradizione storica, tanto che l’artista è affezionato ai materiali come anche agli attrezzi che utilizza. Il punto di partenza della sua attività, negli Anni Sessanta, è la scultura in legno, talvolta tendenzialmente figurativa, dopodiché avvia una ricerca sui materiali, oltre che sulle forme. Una ricerca formale nella quale la sua produzione è diventata crescentemente monumentale e astratta, studiando e catturando le forme naturali, ma insieme ammorbidendole e rendendole più permeabili allo spazio. Usando il bronzo le pietre e il legno, scolpendo sculture per esterni, Ron ha cominciato molto presto a costruire sculture monumentali, quasi totemiche: creature di una “seconda natura”, la sua, in cui alle forme arrotondate si è gradualmente sostituita una geometria nascosta, una griglia geometrica sempre più rigorosa, che ha il senso di un’organizzazione intellettuale della materia scultorea.
Successivamente ha associato al legno e alla pietra altri materiali, dal bronzo al plexiglass al vetro, rendendo così centrale il valore della luce, quasi un materiale a sua volta, che gioca con riflessi, trasparenze, colorazioni La luce sembra anche essere la cerniera del dialogo con Janine, la moglie che lavora come fotografa e che naturalmente trova nella luce una chiave di volta. Per Ron la parola chiave sembra “Composizione”, la sfida a mettere insieme anche materiali provenienti dai diversi continenti, mentre il bianco del marmo statuario è uno sfondo, forse una tavola dalla quale partire. Ron sembra non lasciarsi limitare dai materiali, azzardando accostamenti di toni e materiali diverso come in un piatto di cucina sperimentale dove il confine tra scultura e architettura diventa labile. Colorare il marmo alla moda dei Greci e dei Romani diventa invece un riferimento alla storia.
Negli Anni Novanta l’artista si ispira a geometrie sempre più complesse: in una sua scultura, ad esempio, dove c’è un gioco citazionistico, forse un’allusione al Bacio di Brancusi, come ha rilevato la critica. Gradualmente il basamento della scultura viene assorbito dalla stessa.
Nel Duemila le Pieter diventano paesaggi: tagliate o spaccate secondo tecniche particolari, le pietre “rappresentano”, anzi sono paesaggi. Negli ultimi anni Ron ama sempre di più una pietra del Belgio molto scura, con la quale si possono ottenere effetti cromatici straordinari; non usa invece mai l’alabastro, troppo duttile, non crea la sfida per lo scultore che trova invece nell’onice. Sempre più forte anche il gioco con gli objets trouvés, ad esempio dei pezzi di sedie Thonet, quasi come fossero un’allusione al modernismo viennese, ridotti però ad un ossimoro, oggetti astratti.
a cura di Ilaria Guidantoni