Nella terra di Piero della Francesca e Luca Signorelli, Kilowatt Festival, diretto da Lucia Franchi e Luca Ricci, si sdoppia tra Sansepolcro e Cortona, due affascinanti location dove si sono alternati affermati artisti provenienti dall’ambito teatrale, della danza e del circo con spettacoli che rivedremo nella prossima stagione, insieme a prestigiose ospitalità internazionali, oltre a convegni e concerti.
E’ l’unica rassegna teatrale che affida a 45 non addetti ai lavori, chiamati Visionari, il compito di selezionare un numero di spettacoli da inserire nel suo cartellone e sono 45 cittadini dalla Valtiberina in Toscana: parliamo di quella consolidata realtà che da due decenni è il Kilowatt Festival. Radicato per 19 anni nell’austera e suggestiva Sansepolcro, dallo scorso anno si è diviso in due tranche, la prima sempre nella città di Piero della Francesca (imperdibile la sua Madonna del parto nel museo creato su misura per il dipinto a Monterchi) e la seconda nell’affascinante Cortona. Diretto dagli onnipresenti e infaticabili Lucia Franchi e Luca Ricci, Kilowatt è realizzato in collaborazione con i due Comuni e ha il sostegno dell’Unione Europea, del Ministero della Cultura e della Regione Toscana. Ogni anno a tenere a battesimo la rassegna viene chiamata una madrina o un padrino: questa volta è toccato al regista Antonio Latella a cui è stato dedicato un focus che comprendeva la mostra Amletichevolissimevolmente, dedicata alle sue tre messe in scena dell’Amleto a distanza di 10 anni l’una dall’altra, l’incontro con il pubblico sul suo lavoro dal titolo Muse e museruole del quale hanno dato testimonianza 11 attrici (tra cui Sonia Bergamasco, Laura Marinoni e Federica Rosellini) che hanno collaborato con lui, diventando spesso fonti d’ispirazione ma talvolta dimostrandosi anche critiche sui suoi processi creativi, infine il primo capitolo della trilogia Hotel Goldoni, ispirato all’Arlecchino servitore di due padroni che si avvale della drammaturgia di Linda Dalisi e l’interpretazione degli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico.
Rimaniamo nell’ambito delle proposte che riguardano il Teatro per ricordare, tra le altre, Licia Lanera che ha firmato la regia di Con la carabina, una pièce, già vincitrice del Premio Ubu, di Pauline Peyrade con Danilo Giuva e Emelinda Nasuto dove si racconta che un tribunale francese ha riconosciuto come consenziente allo stupro una bambina di 11 anni: non sorprende che, diventata donna, lei decida di farsi giustizia. Un’indagine sulle
opere di Italo Calvino è quella operata da Mario Perrotta con Come una specie di vertigine che ruota intorno alla parola “libertà”. Pluto è l’ultima delle commedie di Aristofane e la meno rivisitata rispetto ai titoli più famosi: il dio della ricchezza si confronta con un ateniese, rappresentante dei cittadini stanchi di vedere arricchire chi va contro la legge: la messa in scena è della compagnia I sacchi di sabbia e 4 attori (Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri e Enzo Illiano) danno vita a tutti i personaggi. La piena del Po nell’autunno del 1951 con il Polesine che diventò un enorme lago, viene rievocata da Matilde Vigna nel monologo Una riga nera al piano di sopra che poi ci riporta alle piogge dell’autunno del 2021. Tra le ospitalità internazionali va almeno citata quella del
tedesco Julian Hetzel, noto artista visivo, che nelle sue creazioni virate su temi politici ha spesso un approccio documentaristico. A Kilowatt ha portato SPAfrica, dove l’acqua diventa oggetto di conflitto che sfocia nel legame tra razzismo e capitalismo: in scena la performer sudafricana Ntando Cele, in bilico tra teatro fisico, installazione video e concerto.
Tra i numerosi e accattivanti appuntamenti del settore Danza, menzione per Virgilio Sieni che, ispirandosi alla fascinazione dell’uomo contemporaneo nei confronti dell’antichità, ha ideato Satiri che vede in scena Jari Boldrini e Maurizio Giunti. Il danzatore Gianmaria Borzillo firma per Elena Giannotti e Matteo Ramponi la coreografia e la drammaturgia di Under the Influence sul conflitto tra alcuni personaggi dormienti e il vuoto che li abita e il momento del proprio risveglio; dalle profondità della notte arriva anche Mami Wata, dea dell’acqua carica di potere e sessualità: è al centro di Mascarades della coreografa e performer francese di origine camerunense Betty Tchomanga. Sono stai ben 9 i lavori selezionati dai Visionari che hanno il merito di far conoscere e dare visibilità a realtà più di nicchia nelle varie discipline ma tutte di notevole spessore.
Abbiamo seguito più da vicino al tranche di Cortona, dove, per citare Lucio Battisti, tra “discese ardite e risalite” dell’incantevole cittadina (in corso sino all’8 ottobre al Museo dell’Accademia Etrusca la magnifica mostra di Luca Signorelli con capolavori da noi mai visti, provenienti anche dagli Stati Uniti) ci siamo divisi tra i molti spazi messi a disposizione per la rassegna, sia al chiuso (sfidando le temperature torride) che all’aperto dove si sono susseguite le proposte di teatro, danza e circo. Iniziamo a render conto di quanto visto tra le prime a partire dall’originale Opium Clippers, un’originale cerimonia del tè ideata e officiata dalla slovena Neja Tomsic solo per 10 spettatori a replica. E’ una modalità inedita per ripercorrere l’interfacciarsi del commercio dell’oppio con quello delle foglie della bevanda conosciuta in Cina già dal terzo secolo e usata come medicinale, mentre lo stupefacente si diffonde prima in India a metà del settecento, passando poi in Cina e valicando l’oceano per finire in Gran Bretagna. Fu la causa di una lunga guerra tra l’impero cinese e quello britannico (regnante anche in India da dove proveniva il prezioso estratto del papavero) a metà ottocento in seguito a dispute di natura commerciale che videro poi i cinesi accettare l’apertura di nuovi porti e la cessione di Hong Kong per 99 anni. Le fasi della vicenda di cui sono protagoniste le due sostanze sono narrate in parallelo attraverso la storia di 5 navi a vela (appunto le clipper), simboleggiate da bricchi e teiere che passano di mano in mano agli spettatori seduti intorno a un lungo tavolo. Non sono però solo decorative, infatti la performer le usa per preparare e miscelare diversi tipi di tè da far sorbire agli astanti in minuscole ciotole. Una lezione (condotta sia in inglese che in italiano) utile e interessante che conferma la natura economica delle guerre e la migrazione dei commerci illegali da paesi restrittivi ad altri più tolleranti, come nel caso dei trafficanti cinesi spostatisi verso la California. Tomsic ha condotto scrupolose ricerche in materia e sa unire il rigore storico alla piacevolezza dell’intrattenimento.
Difficile dare una definizione di Gioia Salvatori: attrice, poetessa o stand up comedian? Forse tutte e tre, almeno da quanto si evince in Di ridere di piangere di paura, da lei scritto e interpretato con la regia di Gabriele Paolocà e il supporto musicale di Simone Alessandrini. E’ un flusso di coscienza in versi che pone diverse domande esistenziali rivolte a se stessa e al pubblico, ad esempio cosa fare dei nostri corpi o se la morte è un debito che l’essere umano deve necessariamente pagare. C’è spazio anche per una gratificazione golosa: da un cubo nero illuminato troneggia una collinetta di biscotti al cioccolato che vengono sgranocchiati con gusto. La nota dominante è quella surreale e c’è molta autoironia: Salvatori canta e suona con perizia il flauto ma il tutto rimane un po’ sospeso e autoreferenziale pur strappando molti sorrisi. Cambiamo completamente atmosfera e c’immergiamo nel mondo di Sid, ragazzo italiano di origine algerina che vive nella periferia di una nostra città. Sicuramente ribelle e con il sogno di diventare una star, Sid attraversa tutte le possibili esperienze trasgressive: si dà piacere arrivando quasi a soffocarsi con i sacchetti di plastica delle più celebri griffe che ama collezionare; pur avendo una fidanzata, Jamila, fa sesso con donne e uomini, sfruttando la sua avvenenza e virilità si prostituisce e comincia a rubare, iniziando così una carriera criminale che lo vedrà infine uccidere diverse persone, tra cui la madre, con la modalità del soffocamento tramite le suddette buste. Coesiste però nella sua personalità un lato completamente diverso e positivo: è amante della letteratura e divora romanzi: si identifica con Julien Sorel, protagonista del Rosso e il nero di Stendhal; alle superiori è l’allievo
preferito della docente di lettere di cui s’invaghisce e vorrebbe amare, finendo invece per causarne la morte, anche se involontariamente. Respinto da Jamila, altra sua vittima, comincia la discesa nell’autodistruzione: crack, cocaina, rapporti sessuali multipli e promiscui in un rave, in una spirale senza sbocco di cui s’intuisce la fine. Sid-Fin qui tutto bene, da un’idea di Ivan Bert e Girolamo Lucania, anche drammaturgo e regista, vede in scena l’eccellente Alberto Boubakar Malanchino che profonde grande energia e la giusta fisicità al personaggio in una performance davvero emozionante. Qualche riserva l’abbiamo sul testo – che andrebbe asciugato – dove si esplicita e si affastella troppo, arrivando a un eccesso di splatter che nuoce all’equilibrio della vicenda, ma comunque rimane uno spettacolo che certamente merita una ripresa nella prossima stagione.
Con il Manfred, poema drammatico in tre atti composto da Lord Byron nel 1816, si era cimentato anche Carmelo Bene in una ormai storica rappresentazione alla Scala di Milano: ad affrontarlo ora è, con la produzione dei Motus, il progetto artistico maddalena reversa che fonde performing and visual art. In palcoscenico, invaso da una persistente e fitta nebbia, dominano due grandi schermi che riproducono (in inglese e in italiano) brani del testo declamato al contempo dalla performer Maria Alterno di cui però udiamo solo la voce distorta e amplificata ad arte ma che non vediamo in scena. Il buio totale viene solo a tratti spezzato da flash di luci gialle e rosse, mentre la musica elettronica (di Angelo Sicurella) a tutto volume è assai invadente. L’operazione ha un suo fascino visivo e un riferimento all’attualità di questi giorni, dato che l’autore indaga sul difficile rapporto tra uomo e natura, ma rischia di essere dispersiva: ci sarebbe piaciuto fruire di più del pregevole testo (poi raccolto in un artistico programma di sala fornito allo spettatore) del quale finiamo per non cogliere appieno il valore. Di LidOdissea, scritto, diretto e interpretato dalla compagnia Berardi Casolari, abbiamo ampiamente riferito su queste pagine in occasione della visione al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Il duo composto da Piero Capparella e Omar Giorgio Makhloufi si palesa abbigliato come due bambini delle elementari, pantaloni corti e bretelle, citando il caso di un ragazzino indiano che ha portato i genitori in tribunale, accusandoli di averlo fatto nascere senza il suo consenso. In Pier Pier Pier ci conducono poi, in modo un po’ caotico, nell’universo di Pinocchio, ripercorrendone però a ritroso la parabola, da ragazzino a ciocco di legno. In mezzo ci sono parecchie gag che fanno riferimento alla clownerie e allo studio sul ridicolo, aspirando ambiziosamente a diventare “un anello tra Romeo Castellucci e i Fichi d’India”. Uno spettatore viene chiamato suo malgrado a impersonare la fata turchina (con tanto di bacchetta magica d’ordinanza) di cui uno dei due è perdutamente innamorato e che cinge in un romantico ballo, seguito dalla battuta – scontata – “ce l’abbiamo fatta!”. Non sappiamo se per punizione divina o cos’altro, il malcapitato alla fine verrà trasformato in un ciuchino.
Immaginate Sigmund Freud ai giorni nostri, spiato nel suo studio per un’intera giornata. E’ lo spunto originale e divertente che Lisa Merloni (anche in scena con Daniele Natali) ha ideato per Lei non sa cosa vuole, diretto da Michela Cherubini. Il padre della psicoanalisi, vicino alla mezza età, in ottima forma e vagamente erotomane, abita con l’invasiva moglie Marta e la figlia lesbica Anna. Per spezzare la tensione delle sedute, oltre a indulgere di nascoso al fumo dei sigari, sul suo candido divano (che sostituisce il canonico lettino) vorrebbe gratificarsi con una masturbazione davanti a un video porno ma il sopraggiungere di Marta nello studio per rassettare, manda all’aria il proposito. Giunge una paziente che lui fa sdraiare sulle gambe: il rapporto terapeutico non è dei più facili e quando lui la incalza su un sogno erotico circa un rapporto sessuale con il padre, lei scappa via. A movimentare la giornata ci sono i vocali di una giovane collega, ex paziente, con la quale il transfert ha rischiato di oltrepassare i limiti leciti: Freud palesemente la desidera e la vorrebbe vicina ma lei preferisce mantenere la relazione su un piano d’amicizia dato che intende sposare un fidanzato tedesco perennemente depresso. Un’altra frustrazione gli viene da Anna che ha deciso di non frequentare la sua scuola di specializzazione ma quella di un celebre collega, molto presente sui media e celebre per l’uso del termine “pietas”, il cui nome ci ricorda quello di Massimo Recalcati. Marta si assenta senza dar notizie per un pomeriggio intero; a questo punto per Sigmund è meglio rifugiarsi in un sonnellino ristoratore che però si trasforma in un incubo dove una virago femminista cerca di violentarlo. Torna la paziente che aveva interrotto la seduta ma per congedarsi definitivamente e saldare il dovuto con una battuta al vetriolo: “Oggi sono solo le prostitute e gli analisti ad usare il mezzo di pagamento in contanti…”. La giornata non potrebbe chiudersi peggio, con il sospetto che anche Marta lo voglia lasciare, ma lei rientra, confessando di passare ore in un bar di periferia a osservare i traffici degli spacciatori: in compenso non ha intenzione di abbandonarlo pur in un matrimonio senza più amore. Molto bravi e accattivanti entrambi gli interpreti: Merloni si cala in tutti i personaggi femminili e Natali è un Freud disarmante, a volte tenero, sicuramente con pregi e difetti di un essere umano.
Tre sono le proposte della sezione Danza che più ci hanno coinvolto emotivamente e più abbiamo apprezzato. La coreografa e drammaturga Claudia Castellucci ha usato come colonna sonora per La nuova abitudine lo Znamenenny, un antico canto liturgico ortodosso di matrice greca, eseguito dal coro musicAeterna di San Pietroburgo. Nell’evocativo spazio del sagrato della piccola chiesa di San Niccolò (che conserva anche due preziosi Signorelli) tra alti cipressi, i suoi 6 danzatori, che vestono identici costumi bianchi e neri propri della tradizione slava, si muovono in perfetta sincronia ispirando una fascinazione quasi ipnotica in un continuo alternarsi di avvicinamenti e distacchi, alcuni non privi di un simbolismo non facile da decrittare ma di sicuro effetto. Sosta Palmizi è una delle nostre compagnie più longeve e degne d’attenzione: fondata nel 1984 da Giorgio Rossi, ha ora sede a Cortona ed è diretta da Raffaella Giordano e dallo stesso Rossi. Ancora vive nella memoria sono alcune loro creazioni come Danza della rabbia e Perduti nella notte. Insieme al collettivo femminile Qui e ora (che ama collaborare con altre compagnie e lavora
su drammaturgia propria) ha presentato Vertigine della lista, ispirato all’omonimo saggio di Umberto Eco. Si comincia con una dei performer che si rivolge al pubblico con dotte citazioni (i filosofi Agamben e Severino) che confessa però essere estrapolate da Wikipedia, per poi passare al tormentone delle liste: elenchi di tutto un po’, da ciò che si preferisce mangiare, alle piccole incombenze quotidiane, da quelle delle donne uccise per femminicidio a quelle delle fabbriche chiuse. Si arriva a dividerle in liste poetiche, pratiche e incongrue, ricordando la definizione che di queste ultime dava Borges. C’è poi quella delle recriminazioni e accuse della Madonna nei confronti del figlio Gesù, il non averla nominata sulla croce insieme al Padre la peggiore. A seguire i ripetuti, buffi tentativi di leggere una lettera da parte della stessa performer dell’incipit, sempre ostacolata e repressa dalle compagne. Sarà il virtuosistico ballerino Lorenzo De Simone, che è stato un gatto sinuoso e miagolante in cerca di coccole sino allora, che se ne impossessa e alla fine la lascia sul palco sotto una lampada, a disposizione degli spettatori, mentre ad alcuni di loro viene consegnata brevi manu e scopriamo che contiene l’ennesima lista, forse stilata da Giorgio Rossi, qui anche regista. Talento, autoironia e intelligenza sono gli ingredienti di questo eccellente esempio di teatro danza, forte del gioco di squadra di Francesca Albanese, Silvia Baldini, Laura Valli di Qui e ora e De Simone di Sosta Palmizi. Tutto giocato invece sulla fisicità e sensualità dei corpi è All You Need di e con Emanuele Rosa, Maria Focaraccio e Armando Rossi che in una sorta di triangolo amoroso in cui s’incastrano lui e lei, lui con lui, lei con l’altro per poi unirsi insieme ma alla fine ognuno se ne va per conto proprio, si muovono tra passi di tango, salsa e valzer sulle note anche dei Bee Gees.
Ancora tre sono gli spettacoli di Circo, goduti nella brezza serale della piazza del Duomo, che vogliamo ricordare, a cominciare da Dado Classic, del canadese Daniel Warr in arte Dado che irrompe sul palco avvolto in una lunga e nera tunica sormontata da un’enorme gobba di gommapiuma. Qui, scandendo solo pochissime parole sempre uguali in un inglese smozzicato, Dado miscela magia, mimo e clownerie per il divertimento di grandi e piccini che non esita a coinvolgere, facendogli gonfiare palloncini o nel comico tentativo di farli scomparire senza
successo. Tecnica ad alti livelli è quella dei giocolieri Chris Patfield e Jose Triguero, con base a Londra e già presenti alla Royal Opera House e a Glyndbourne, che in Gibbon mostrano la messa in scena in divenire dello spettacolo stesso, compresi i finti errori, come quelli all’inizio con la voce di Bob Dylan in Blowing in the Wind, bruscamente interrotta. C’è grande alchimia tra loro e non solo nella giocoleria: humor inglese, ironia e qualche nota surreale (i ruggiti del leone o il gioco delle bocce) sono un mix che ritroviamo anche nei siparietti – alcuni più deboli di altri – che danno modo di ricaricarsi ed eseguire gli esercizi alla perfezione senza più gli sbagli voluti, finendo, non a caso, con l’intera, perfetta esecuzione del primo con il sottofondo della stessa hit di Dylan. Il Kolektivo Konica, formato da sei acrobate di diversa nazionalità, ognuna con uno speciale talento oltre alla specializzazione comune, in La punta del mio naso sceglie come filo rosso della sua performance le testimonianze delle nonne, di cui vestono anche gli abiti, e dell’epoca in cui sono vissute: un inno alla femminilità e al diritto all’affermazione della donna anche in abito circense in cui la comicità si sposa alla poesia, alla tecnica e al canto. A completare il ricco programma sono stati i partecipati convegni Chi ha paura del teatro digitale e Coming Up Next. Pratiche di formazione e partecipazione per un nuovo pubblico, i concerti serali nel bel chiostro di Sant’Agostino e per i più nottambuli e giovani gli affollati dj-set, senza dimenticare che Kilowatt è una realtà attiva tutto l’anno, impegnata in una fruttuosa rete tra diverse strutture europee.
a cura di Mario Cervio Gualersi