Con la messa in onda prima della serie tv poi del film, in Svezia nel 1973 il tasso dei divorzi s’impennò paurosamente: questo l’effetto collaterale di Scene da un matrimonio, il capolavoro di Ingmar Bergman con Liv Ullman e Erland Josephson. Sei capitoli, quasi sei round, nei quali una coppia all’inizio apparentemente serena fa man mano letteralmente a pezzi la propria unione, arrivando alla violenza fisica e psicologica. Bergman lo aveva concepito come testo teatrale ma la televisione e il cinema ebbero la priorità rispetto al palcoscenico. In Italia a cimentarsi in questa sfida furono nel 1997 Gabriele Lavia e Monica Guerritore (allora uniti anche nella vita), oggi è il regista Raphael Tobia Vogel, già avvezzo a approfondire le dinamiche familiari nei lavori di Francesco Brandi e nei più recenti Majorie Prime di Jordan Harrison e Costellazioni di Nick Payne, a misurarsi con questa drammatica deriva relazionale.
“A 36 anni”, dice Vogel, “è il momento di affrontare questo testo che toglie certezze e pone domande: sei capitoli della vicenda di una coppia che pare felice ma nasconde crepe e insoddisfazioni, rabbia, risentimento e tensione, insegnandoci che le relazioni amorose hanno alti e bassi. Io stesso sto vivendo un periodo personale molto felice ma sono anche pronto ad avvertire campanelli d’allarme. Una delle chiavi di lettura che ho scelto è il tema della mancanza di contatto fisico e diretto, vista la grave dipendenza, soprattutto dei giovani, dalla tecnologia e dai social media. Questo scollamento progressivo del contatto con il prossimo dalla condivisione attiva degli spazi comuni non può che comportare un allontanamento dalla realtà. Ho cercato di usare un linguaggio meno letterario e più moderno, lasciando intatta l’universalità con tutte le maschere del gioco del teatro, un invito allo spettatore ad affrontare esplicitamente la complessità dei sentimenti umani, amorosi, familiari o coniugali che siano, risvegliando qualcosa che è innato in noi, per quanto sopito o nascosto”.
Nell’adattamento di Alessandro D’Alatri (su traduzione di Pietro Monaci) Johan e Marianne del film sono diventati Giovanni e Marianna. Li incontriamo ai nostri giorni nella loro confortevole casa mentre sono intenti a rispondere da remoto alle domande di una giornalista sulla loro vita coniugale: il ritratto che ne danno è quello di una coppia benestante (lei 35 anni, avvocato divorzista, lui 42 anni, psicologo), quantomeno serena e appagata sia dal punto di vista affettivo che da quello sessuale, oltre ad essere genitori di due adorabili bimbe, Caterina e Eva. Passa qualche mese e ben presto però cominciano ad emergere crepe e contraddizioni: a manifestare per prima l’insofferenza per la monotona routine familiare e per il ruolo di moglie e madre ideale che le è stato cucito addosso è Marianna. Si sente costretta dai forti legami con i genitori, insoddisfatta della sua vita familiare e sociale, tanto da desiderare di staccarsi da tutto e partire per un viaggio lei e Giovanni da soli. Quest’ultimo prima cerca di minimizzare poi si apre e dà sfogo senza censure alle sue recriminazioni, la prima delle quali riguarda la loro vita sessuale, ormai solo meccanica e senza passione. Da lì a sancire la fine dell’amore il passo è breve. Altro tempo trascorre e la crisi tra i due si fa irreversibile quando Giovanni confessa di essersi innamorato di Paola, un’interprete conosciuta a un congresso, e che sta per partire con lei per una vacanza a Parigi.
Questa separazione non sarà solo temporanea: l’uomo infatti lascia la casa e va a convivere con l’amante, senza cedere alle suppliche e alla prostrazione di Marianna che arriva ad umiliarsi come mai prima. Dopo due anni li ritroviamo sempre nello stesso appartamento che ora è solo di Marianna. Giovanni sì è invitato a cena approfittando dell’assenza per lavoro di Paola, sempre più gelosa e possessiva nei suoi confronti tanto da impedirgli di vedere le figlie. Lui, che ha ricevuto un’offerta per un incarico a Cleveland, vorrebbe fare sesso ma la moglie lo respinge, dando la stura alla prima violenta lite tra loro. L’incontro successivo è ancora più drammatico: in una casa ormai abbandonata (Marianna è andata a convivere con un nuovo compagno) si trovano per firmare le pratiche del divorzio anche se Giovanni sembra riluttante. Questo atteggiamento spinge Marianna ad attuare la sua crudele vendetta, prima prendendo l’iniziativa per un rapporto sessuale con lei dominante e quasi sadica, poi confessandogli di averlo tradito con tre diversi uomini già all’inzizio del loro matrimonio, infine umiliandolo facendo leva sulla sua crisi professionale e esistenziale (è sfumato il lavoro a Cleveland e la relazione con Paola è ormai alle corde), dileggiandone la pochezza. La reazione di Giovanni è la peggiore immaginabile: le impedisce di uscire e la picchia con tutta la forza e cattiveria che ha in corpo, infine firma i documenti e la lascia guadagnare la porta, reggendosi a stento in piedi. Dopo questo terribile scontro penseremmo che non si incontreranno mai più invece li rivediamo sette anni dopo in un luogo indefinito (lei sposata con Enrico e lui con Laura) scambiarsi ricordi e tenerezze.
La regia di Vogel riesce assai bene a scavare nella psicologia dei personaggi facendone due ritratti credibili anche per la realtà del nostro tempo, superando la difficolta tipica dei testi non abbastanza antichi (pur con i debiti a Ibsen e Strindberg) per essere considerati classici e non abbastanza recenti per essere ritenuti contemporanei. Sono altresì felici l’uso equilibrato dei video, l’intuizione di assegnare al pubblico il ruolo di voyeur come avviene prima dell’inizio con il sipario socchiuso e quella di teatralizzare i numerosi e necessari cambi di scena e di abiti degli interpreti ad opera degli assistenti di palcoscenico, infine l’aver spostato l’ultimo quadro in proscenio. Giovanni è Fausto Cabra, alle spalle un lungo sodalizio con Luca Ronconi e tante collaborazioni con i nostri più celebri registi. “All’inizio questa sfida mi terrorizzava. Mi sono ritrovato nella scelta registica di non distruggere l’istituzione matrimoniale che oggi, rispetto agli anni settanta, è già esplosa: la via era quella di proporre un percorso con se stessi, la scoperta che non si riesce a evolvere nel ruolo di padri perché si è ancora incastrati in quello dei figli. Grazie alla nostra professione di attori conosciamo di più i nostri lati oscuri.” Al suo Giovanni presta una gamma di registri che spaziano dalla dolcezza alla brutalità, dal cinismo alla fragilità, oltre alla giusta fisicità, in una prova davvero eccellente.
Sara Lazzaro, tornata al teatro dopo le molte apparizioni al cinema e in televisione, è Marianna. “Lei è una borghese che all’inizio di definisce moglie e madre, rimarcando la totale connessione con l’uomo. Poi inizia un viaggio di ricerca individuale che ha per tema la natura della relazione con se stessa e con chi ha amato, togliendosi quella maschera che la famiglia e la società ci chiedono di indossare, rinunciando a quell’identità che vorremmo avere ma che non ci rappresenta.” Prima mogliettina da romanzo rosa, poi donna innamorata che vuole preservare l’unione con l’uomo che ancora pensa di amare, infine determinata a ripagarlo del dolore che le ha inflitto, ma già proiettata in una nuova dimensione, seduttiva e senza pudori quando occorre. Le belle scene sono firmate da Nicolas Bovey: una sorta di scatola vagamente claustrofobica che racchiude due ambienti (soggiorno e camera da letto) prima arredati con dovizia e poi man mano sempre più spogli, con le pareti che da massicce si fanno via via più sottili e quasi trasparenti, per finire in una casa senza tempo. Le musiche, ora suadenti ora inquietanti, spaziano da Philip Glass a Arvo Part e sono a cura di Matteo Ceccarini e i costumi funzionali di Nicoletta Ceccolini. Prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, Scene da un matrimonio si replica con successo nella Sala Grande sino al 24 marzo, in attesa della ripresa nella prossima stagione.
Cosa mai potrà succedere a un sovrano che, avendo espletato i bisogni corporali, anziché tergersi con un panno, vedendo una gallina apparentemente morta, usa le sue morbide piume? Ce lo racconta Giambattista Basile (1583-1632) in Re Chicchinella, una delle sue novelle in lingua napoletana che compongono Lo cunto de li cunti.
Dopo aver ridotto, riscritto e diretto per il teatro prima La scortecata e poi Pupo di zucchero. La festa dei morti, Emma Dante non poteva non completare questa originalissima trilogia. “Basile”, afferma la regista, “è un narratore, anzi un affabulatore, un inventore di favole che sempre hanno molto a che fare con la realtà. E’ un grandissimo creatore di visioni, grazie soprattutto al linguaggio intriso di magia che impiega, ma allo stesso tempo è molto concreto, estremamente terreno. Di Basile mi piace la verità: nonostante l’architettura straordinaria che costruisce attraverso il linguaggio mantiene sempre qualcosa di fortemente realistico. Mi affascina anche per come tratta il tema della morte che in lui ha sempre qualcosa di magico. Il suo è un napoletano del ‘600 praticamente incomprensibile: al pubblico consiglio di non pretendere di decifrare ogni singola parola ma di abbandonarsi come ci si abbandona alla danza”.
Torniamo alle traversie del re di Napoli Carlo III d’Angiò. Il malcapitato presto si rende conto che la gallina non era morta ma solo tramortita e ora gli si è insinuata nell’intestino, divorandolo giorno dopo giorno. Quel poco di quello che riesce a cibarsi gli procura terribili sofferenze perché viene elaborato dal pennuto che in cambio sforna uova davvero particolari perché sono… d’oro. Questo dono preziosissimo fa ovviamente gola alla regina sua consorte, una principessa francese che gli rinfaccia a ogni piè sospinto la sua ignoranza, i suoi modi incolti al confronto della cultura e della raffinatezza d’oltralpe, per non parlare della superiorità della cucina, umiliandolo davanti alla corte che parla sempre e soltanto francese. La giovane principessina figlia loro non è da meno: succuba della madre e totalmente anaffettiva nei confronti del genitore. Mosse dall’avidità, il loro atteggiamento muta da quando il sovrano è in grado di produrre quel prezioso gioiello e lo blandiscono con moine e gentilezze affinché mangi. Lui invece, pur di non soffrire, decide di digiunare, facendosi accudire da due fedeli paggi e cercando più volte ma invano di far uscire l’intrusa con aiuto dei medici. Al tredicesimo giorno di digiuno, stremato e sottoposto alla tortura di vedere moglie, figlia e tutta la corte ingozzarsi di ogni prelibatezza possibile, cede e chiede un’oliva e una fetta biscottata. A breve ricompaiono fortissimi dolori al ventre: disperato, chiederà a un dottore di usare un enorme forcipe per estrarre l’animale. Riuscirà finalmente a liberarsene o questo estremo tentativo gli sarà fatale?
“La verità di questa novella”, continua Emma Dante, “ha a che fare con l’avidità, la mancanza di empatia che a volte si trova all’interno delle famiglie. Qui si descrive in maniera spietata questa casata reale la cui storia è ambientata in un palazzo nobile, all’interno di una corte aristocratica. Eppure anche questa famiglia ha le sue miserie, prima di tutte la solitudine, in mezzo a una comunità apparentemente felice nel benessere. Il re è infatti solo, malato, abbandonato, circondato da persone non certo interessate alla sua anima o alla sua bellezza interiore, bensì solo al denaro derivante dalle uova d’oro. Nella mia rivisitazione questo è diventato il nodo drammaturgico dello spettacolo che a poco a poco si trasforma in una visione, in un incubo, in un sogno. Di sicuro si parla anche della solitudine del potere, della sua ottusità che istupidisce e quindi bisogna guardarsi dal desiderarlo e dal conquistarlo perché di sicuro non è sano. Il potere, per come lo si racconta in questa favola, è qualcosa di patologico che non produce bellezza ma odio e distanza”.
Va detto che lo spettacolo è prima di tutto una gioia per gli occhi, dalle coloratissime maschere raffiguranti teste di gallina, indossate dalle dame di corte, ai rutilanti e sontuosi costumi, senza dimenticare i movimenti scenici – entrambi opera della regista – che regalano momenti di pura danza come quando la coreografia richiama il movimento dei pennuti quando camminano o quando la corte cerca di tentare il re divorandogli in faccia i suoi cibi preferiti. Altro valore aggiunto è quello di stemperare il dramma con alcune gag comiche, come quella tra il re e i paggi che si sfidano su chi meglio riesca a definire cosa sia l’alba o ancora quella in cui due devono provvedere alla quotidiana toelettatura del sovrano. Di grande effetto la scena finale in cui con un cuop de théatre sotto una coltre di veli neri appare una vera gallina.
Oltre agli indiscussi meriti della regista che con la consueta perizia orchestra un ensemble di 14 attori ai quali come sempre chiede il massimo, la forza dello spettacolo sta anche nell’impegno di un cast super affiatato, a cominciare dal protagonista Carmine Maringola in una grande prova nella quale sposa uno strepitoso lavoro sul corpo con la finezza dell’interpretazione sia quando usa il registro burbero e prepotente, sia quando si fa dolente e rassegnato. Una menzione almeno per la regina di Annamaria Palomba, ipocrita e sprezzante, per la figlia di Angelica Bifano e per i paggi di Dario e Simone Mazzella; godibilissimi tutti gli interpreti delle corte, alcuni en travesti, quasi una citazione della compagnia di danza dei Trockadero di Monte Carlo. Decisamente accattivanti le musiche che spaziano da Handel (Lascia ch’io pianga) alla Passacaglia di Franco Battiato.
Co-prodotto, tra gli altri, dal Piccolo Teatro di Milano, dalla Compagnia Sud Costa Occidentale e dal Teatro di Napoli, Re Chicchinella rimane in scena sold out al Piccolo Studio Melato sino al 28 marzo, poi sarà alla Città del Teatro di Cascina (PI) il 5 aprile e al Comunale di Casalmaggiore (CR) il 6/4.
a cura di Mario Cervio Gualersi