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La Galleria il Ponte di Firenze ha inaugurato il 17 maggio l’ultima mostra della stagione, Costas Tsoclis. Una retrospettiva, 1959-2022, a cura di Bruno Corà (autore anche del testo di presentazione della mostra), che resterà aperta fino al 26 luglio, e contestualmente ha presentato il catalogo generale, curato da Chrysanthi Koutsouraki e pubblicato dalla casa editrice greca Melissa Publishing House in greco e inglese.
La mostra è dedicata a Costas Tsoclis, artista ateniese a cui la galleria aveva dedicato un close up nel 2019.
Viene presentata una sintetica retrospettiva, dal 1956 al 2022, in cui, tra le opere pietre miliari del suo percorso creativo, caratterizzate dalla molteplicità dei suoi mezzi espressivi, prevalgono acrilici su tela. Spirito inquieto, ricercatore, innovativo, eclettico, da sempre ricorre ad un ampio registro di mezzi espressivi, dalla pittura all’installazione, dal video alla performance, per restituirci la magia dell’illusione visiva.
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Il punto di partenza è l’informale astratto dove si avverte l’influenza o comunque la suggestione delle tele di Afro, Alberto Burri, Hans Hartung e Jean Fautrier, anche se in mostra c’è un’opera del 1956 che fa parte della serie dei ritratti in cui il realismo ricorda molta pittura del Novecento con i suoi toni metafisici e quel tocco apparentemente fotografico che suggerisce altro facendo pensare a certi interni di Henri Matisse.
Poi la sperimentazione si concentra sugli oggetti del quotidiano che assumono un tono malinconico, risentono delle ferite che la storia del suo Paese ha inferto all’artista e diventano l’occasione per “uscire” dalla tela con pitture sulle quali sono applicati elementi tridimensionali come i sassi o che diventano materiche a cominciare dal colore, sempre dato in spessore. In mostra anche un’opera site specific in cui la pittura azzurra, come il mare, gronda da una cornice, fuoriuscendo da essa.
Interessante Mikado nella versione in legno, più comune, del gioco di pazienza di ispirazione giapponese dove il disegno delle bacchettine in legno si completa con le stesse in formato gigante che fuoriescono dalla tela.
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Così anche in una tela con pavimento a scacchiera da dove fuoriescono due sedie con tela verde da regista. O ancora il tema ricorrente degli Alberi e sassi del 2008, dipinti in cemento bianco che riprende una ritualità tipica greca che conferisce con questa tintura sulla corteccia del tronco, sacralità alle piante.
L’artista si cimenta anche nelle Living painting con una proiezione di slow motion sulla tela dipinta, attraverso un proiettore come nel video presente nell’esposizione con un uccellino che si libra nell’aria.
In ogni caso costante ispirazione è la natura, come nell’ultima serie dei suoi lavori dedicati a i Sassi e il mare del 2022 che diventa mitico. Infatti “a eccezione del breve periodo durante il quale si è occupato di arte informale, la sua opera mira alla messinscena e alla rappresentazione della realtà che ci circonda e alla riproduzione delle immagini. Con questo strumento delle immagini indaga intorno al mito, alla natura, ma anche alla metafisica, alle passioni umane, ricorrendo non di rado all’ironia. Grande è la sua forza raffiguratrice, ma altrettanto notevole è la sua maestria nell’utilizzare i mezzi dell’installazione”.
Tsoclis non è mai pittore e scultore nel vero senso del termine, dal momento che i suoi dipinti possono risultare sculture e, viceversa, la sua scultura pittura. La fisionomia basilare dell’opera di Tsoclis sta nella contraddizione che riesce a far emergere tra verità e finzione, tra interrogativo e risposta, tra fede ed eresia, tra stabilità e mutazione, tra certezza e dubbio.
L’ambiguità è una costante della sua opera. La realtà e l’apparenza che si iscrivono nel vivo della sua opera, soprattutto negli oggetti tridimensionali e nei trompe-l’oeil, sono testimonianza che l’utilizzo dell’oggetto ha a che fare non con una realtà verificata, ma con tutta una problematica intorno alla sua manifestazione. Il mito, privato e collettivo, la vita, le immagini che si rivelano solo in un secondo tempo nel loro significato, insomma, “le cose che mi hanno ferito”, come lui stesso afferma, costituiscono la materia prima dell’opera di Tsoclis. Un grande artista europeo, che, non dimenticando le sue radici e il richiamo dell’archetipo, rivendica a buon diritto il suo titolo di autentico poeta, come ha scritto Katerina Koskinà nel 2000.
Esposti anche due disegni che ironicamente definisce “il minimo, quasi niente, niente”.
Chi è Costas Tsoclis
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Nasce nel 1930 e trascorre gli anni dell’adolescenza ad Atene. Figlio di un pittore dilettante, si dedica all’arte fin dalla sua infanzia, praticando nel tempo tutte le discipline delle Arti Visive. Al padre, che considera l’arte più alta uno sfizio, fa una promessa, che ne farà un mestiere che gli sarà da vivere.
Tra i dieci e i quindici anni vive l’esperienza della guerra, l’occupazione tedesca, poi la guerra civile, la battaglia disperata per la sopravvivenza in un mondo di morte, mutilati, miserabili, di mendicanti degradati senza scrupolo e traditori, ma anche di decaduti combattenti comunisti orgogliosi e alcune opere, una in mostra, riecheggiano questo clima di orrore.
Tra i quattordici e i diciotto lavora come uno schiavo, come assistente di importanti artisti scenici del cinema e collabora ai cartelloni pubblicitari.
A diciotto anni frequenta ad Atene la Scuola di Belle Arti dove per sei anni gli insegnano Arte accademica convenzionale, senza un’estetica elevata e in disperate condizioni economiche (ma conosce l’amicizia e l’amore erotico, e sopporta tutto questo con superlativo entusiasmo e passione). In realtà è insofferente dell’ambiente rigido e chiuso
Viene in Italia e a Roma fonda il Gruppo Sigma con un gruppo di greci espatriati anche per sostenersi e si iscrive a Scuola di ornamento ed encausto.
A ventiquattro anni, richiamato, inizia il servizio militare obbligatorio per due anni durante i quali comunque realizza due o tre meravigliosi dipinti.
Nel frattempo impara Italiano; gli viene assegnata una borsa di studio nazionale di tre anni che gli permette di lasciare la Grecia come emigrante culturale.
Nel 1957 si sposa con una bella e interessante donna, Fania Kaplanidou, accademicamente e socialmente più elevata di lui, alla quale deve molto, perché fino alla sua morte nel 1968 lo sostiene e lo rende padre dell’unica figlia, la continuazione della sua materiale esistenza. Per undici anni vivono insieme tra Roma e Parigi.
Tra il 1964-‘65 qualcosa cambia. Inizia a controllare le sue emozioni, i suoi desideri, il suo lavoro. E poi, inaspettatamente arriva il successo. Un successo che deve a Michael e Ileana Sonnabend, ma anche ad alcuni mercanti d’arte che credono in lui. Belgio, Italia e Germania lo supportano e iniziano a comprare le sue opere, a scrivere di lui, organizzare mostre, diventare suoi amici. La Francia è diffidente nei suoi confronti, in tutto il vasto mondo dell’arte parigino ha solo due amici: José Pierre, all’inizio della sua carriera, e poi Pierre Restany. Gli altri solo mere conoscenze.
Nel 1971, si trasferisce a Berlino dove vive, lavora, e tiene mostre per diciotto anni.
Dal ’71 al ’72, vive con Eleni, sua collaboratrice e l’amore maturo della sua vita, e sua figlia Maya.
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Ritorna a Parigi e incontra una persona molto importante per la sua carriera internazionale, Alexandre Iolas, nella sua vita fino al 1986, poco prima della sua morte. Nel 1973 Eleni and Maya ritornano ad Atene e, per dodici anni, vive tra Parigi e Atene, gradualmente trascurando la sua presenza internazionale ed enfatizzando la sua presenza in Grecia.
La sua partecipazione alla vita artistica tra mostre personali e collettive è molto vivace, con una presenza importante a tante Biennali da Parigi ad Arco a Lisbona alla Biennale di Venezia nel 1986 dove porta le sue Living painting.
Dal suo decisivo ritorno in Grecia nel 1985, realizza molte opere. Alcune buone, alcune belle, alcune brutte. Tra queste una ventina assicurano la responsabilità di preservare il suo nome e preservare il contributo Greco all’Arte universale durante gli anni vissuti dell’artista e che ancora vive. “Ma arriva poi un tempo quando l’oggi, il presente, non ha più spazio per te, o quando non ti vuole, e le sue immagini cambiano e si scambiano così velocemente che non hai il tempo di registrarle e raffinarle. L’ieri da solo sembra immobile, come una colonna di sale, e questo ti permette di vederlo, comprenderlo, e di lavorarci su. Il domani forse ti dà tempo per l’osservazione, finché ti cade addosso come una valanga e ti porta via seppellendoti. Un tempo sei stato tu a diventare il presente, l’oggi, o così pensavi. E ti è stato assicurato un posto nel passato, trasformato da un organismo vivente in un arco tipicamente indicativo, di solito ingannevole, quindi pieno di speranza. Perché ogni previsione accurata uccide l’inaspettato. E non è solo e sempre dall’Arte che ci aspettiamo l’inaspettato?”. Nel 2010, apre a Tinos, nella Regione di Kampos, il Museo che porta il suo nome e dove con il curatore Chrysanthi Koutsouraki organizza molte mostre.
a cura di Ilaria Guidantoni