Torna sulle scene l’adattamento dell’ultimo romanzo di Joseph Roth La leggenda del santo bevitore con Carlo Cecchi diretto da Andrée Ruth Shammah; la regista Serena Sinigaglia ci conduce nell’antica Grecia con Le supplici di Euripide; Rosario Lisma si cimenta con Il gabbiano di Cechov e Arturo Cirillo si trasforma in un inedito Cyrano de Bergerac.
Il giorno in cui Hitler divenne cancelliere del Reich decise di lasciare per sempre il suo paese: Joseph Roth (1894-1939), scrittore e giornalista di religione ebraica, raccontò il dissolversi dell’impero austro-ungarico, coacervo di etnie, lingue e religioni, ai confini del quale, nell’odierna Ucraina, lui stesso era nato. Come per altri autori, poco dopo i suoi libri vennero bruciati e l’esilio lo portò prima nei Paesi Bassi, poi in Austria, Polonia e infine prima a Nizza e in seguito a Parigi dove compose gli ultimi romanzi come La cripta dei cappuccini, La milleduesima notte e infine La leggenda del santo bevitore, il suo testamento spirituale nell’anno della morte. Il protagonista Andreas Karnak è un clochard senza dimora che dorme sotto i ponti di Parigi: ex minatore, è uscito di prigione dopo aver scontato la pena per aver ucciso il marito dell’amante e passa le giornate raggranellando qualche spiccio per andare a ubriacarsi. Un giorno s’imbatte in un distinto signore che gli regala duecento franchi, facendogli promettere di portarli in dono alla statua di Santa Teresa di Lisieux nella chiesa di S. Maria di Batignolles. Da qui inizia una sorta di girotondo schnitzleriano nel quale Andreas, sempre sul punto di compiere la sua missione, ne viene distolto da una serie d’incontri imprevedibili – un’ex amante, poi una ballerina e infine il vecchio amico Woitech – con cui dilapida il denaro. La fortuna (o un “miracolo” per chi ci crede) però arriva in suo soccorso: il portafoglio ritorna gonfio, un calciatore gli regala altri soldi e un poliziotto inspiegabilmente gli consegna un borsellino con di nuovo duecento franchi. Dovrebbe essere la volta buona per portare a termine il suo compito, invece, complice l’avido Woitech, dissipa ancora tutto in colossali bevute. Non evita però il tracollo fisico: nell’ultimo bistrot ha un malore e, trasportato proprio nella chiesa in cui doveva recarsi, spira tra le braccia di una ragazzina di nome Teresa che lui scambia per la santa.
Per certi versi Karnak si può considerare un alter ego di Roth: li avvicina la stessa debolezza nei confronti dell’alcol e la stessa fine: passato poco tempo dall’aver finito il romanzo, anche lo scrittore ha un mancamento all’uscita di un caffè dove aveva abusato del troppo Pernod e quattro giorni dopo muore all’ospizio dei poveri. Significativa, quasi presagisse la sua fine a breve, è la chiusa del racconto: “Conceda Dio a tutti noi bevitori una morte così facile e così bella”, soffusa di malinconia, celata sotto il tono ironico e distaccato della sua scrittura. Reso celebre dal film del 1988 di Ermanno Olmi con Rutger Hauer, il romanzo aveva attratto la regista Andrée Ruth Shammah che già 15 anni fa lo mise in scena, scegliendo Piero Mazzarella come protagonista. “Rispetto allo spettacolo del 2007 quando Mazzarella conferì al personaggio la sua fisicità, stavolta la presenza di Roth in palcoscenico è più forte e incombente e questo penso abbia a che fare con un particolare autobiografico dell’autore riguardante la sua conversione al cattolicesimo (che potrebbe essere simbolicamente rappresentato dall’uomo che all’inizio gli offre la somma di denaro), senza però fargli dimenticare le sue radici ebraiche. Questo essere in bilico, incerto, combattuto, è il rapporto altalenante di Roth con il cattolicesimo, la lotta della sua componente ebraica con la nuova religione che ha abbracciato e che gli disvela sotto una nuova luce molti aspetti della sua esistenza. E’ come se tutta l’opera di Roth fosse un grande Kaddish (la preghiera che gli ebrei recitano per i defunti) per se stesso non avendo né eredi né radici.”
A interpretare Karnak la regista ha chiamato Carlo Cecchi, l’attore con cui da tempo intesse un rapporto privilegiato e che ospita regolarmente nel suo teatro. Lui si è calato con il suo grande talento e il particolare registro vocale (che talvolta ricorda quello di Carmelo Bene) in Andreas, facendone un vinto, un debole però pervaso da fanciullesca ingenuità e candore, ricoprendo il ruolo del narratore e del narrato, esperienza per lui insolita quella di passare dalla terza persona alla prima in cui non si era mai identificato. Una nuova, coraggiosa tappa in una fulgida carriera che Cecchi supera in modo splendido, giocando su vari registri: sorpresa, complicità, arguzia. Accanto a lui ci sono Roberta Rovelli che legge in proscenio alcuni passi del romanzo e Giovanni Lucini, partecipe barman nell’essenziale bistrot, ricreato da Gianmaurizio Fercioni, in cui si ambienta tutta l’azione. Fanno da sfondo i filmati e le immagini che mostrano la nostalgica Parigi degli anni trenta, curati da Luca Scarzella e Vinicio Bordin, e in sottofondo sentiamo musiche che spaziano da Stravinskij al jazz, melodie yiddish e suggestioni parigine. La leggenda del santo bevitore si replica al teatro Franco Parenti di Milano (anche produttore) sino al 12 febbraio.
Ci troviamo nell’antica Grecia e a Eleusi un gruppo di donne di Argo si raccoglie presso l’altare di Demetra: sono le madri dei guerrieri morti nel fallito assalto a Tebe (lo stesso che Eschilo racconta nei Sette contro Tebe) per supplicare gli ateniesi affinché diano degna sepoltura ai figli, le cui spoglie i tebani rifiutano di consegnare. Il re Teseo decide di aiutarle e si confronta con un araldo tebano in un serrato dialogo in cui difende i valori di democrazia e libertà di Atene contrapposti alla tirannide di Tebe, mentre l’altro ribatte che in democrazia troppi comandano col risultato di essere ondivaghi e divisivi. Non trovando un accordo, scoppia una guerra che vede la prima prevalere sulla seconda. In seguito a questa vittoria le salme vengono restituite e il re di Argo, Adrasto, s’incarica di celebrare i defunti con un elogio commemorativo. Durante il rito funebre Evadne, moglie del caduto Capaneo, per affermare l’estrema fedeltà coniugale, si getta nel rogo dove il marito sta per essere cremato. Compare infine ex machina la dea Atena che fa giurare ad Adrasto eterna gratitudine e perpetua alleanza tra le due città, predicendo anche la prossima caduta di Tebe. Le supplici è una tragedia composta da Euripide e
rappresentata per la prima volta tra il 423 e 421 a.C. A metterla in scena è ora la regista Serena Sinagaglia, anche condirettore artistico del teatro Carcano di Milano. “Amo i classici da sempre: con essi imparo cos’è il teatro e cos’è l’essere umano, mentre con i contemporanei imparo a conoscere la realtà presente e il tempo in cui vivo: insomma, classico e contemporaneo si specchiano a vicenda. Da anni volevo affrontare Le supplici: il crollo dei valori dell’umanesimo, il prevalere della forza e dell’ambiguità più feroce, il trionfo del narcisismo e della pochezza che emergono da questo testo li ritroviamo tra le pieghe dei giorni strazianti e straziati che stiamo vivendo. E’ incredibile quanto una scrittura così antica risuoni così chiara e forte alle orecchie di un cittadino del terzo millennio. Il discorso tanto caro a Euripide che parla di pacifismo e amore tra i popoli, di dolore e pietà di queste madri che hanno perduto i figli, di un intero paese che ha perso i propri eroi, s’intreccia con un sottile ragionamento politico capace di rendere questa tragedia un unicum per l’antichità.”
A calarsi in tutti i personaggi, maschili e femminili, la regista, con il supporto produttivo di ATIR, Nidodiragno/CMC e Fondazione Teatro Due Parma, ha voluto sette attrici che con lei condividono da tempo un percorso artistico comune, alcune di loro sin dai tempi del glorioso teatro Ringhiera: Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan e Debora Zuin. L’adattamento è di Gabriele Scotti, scene di Maria Spazzi, cori a cura di Francesca Della Monica. Le supplici va in scena al teatro Carcano dal 14 al 19/2, poi il 23 e 24/2 al Sociale di Como e il 25/2 al teatro Dell’Argine di San Lazzaro di Savena (BO).
E’ stata l’ultima opera di Anton Cechov (1860-1904) in cui riassume la sua poetica, divisa tra il dramma borghese che lo avvicina a Strindberg e la commedia: Il giardino dei ciliegi debuttò nel gennaio 1904 al Teatro dell’Arte di Mosca, sei mesi prima della morte del drammaturgo a causa della tubercolosi. La trama è assai nota e si focalizza sul declino della vecchia aristocrazia russa e l’ascesa della borghesia, iniziata dopo il 1861 quando i servi della gleba vennero affrancati dalla servitù di stampo feudale, ponendo le prime radici di una nuova classe sociale. Dopo cinque anni la nobildonna Ljubov Andreevna, chiamata Liuba, fa ritorno nella tenuta di campagna dove aveva trascorso parte della vita, prima di trasferirsi a Parigi con la figlia Anja e dilapidare il suo patrimonio. Nella casa è rimasto il fratello Leonid Gaev, infantile e debole, con l’altra figlia adottiva Varja che è innamorata del mercante Lopachin, l’amministratore della tenuta. La situazione finanziaria è così disastrosa che quest’ultimo propone di vendere il terreno per lottizzare e costruire villette per vacanze ma Ljuba, al pensiero che il giardino venga abbattuto e con esso vadano perduti i ricordi della giovinezza e del figlioletto morto, esita e così il fratello. Alla fine però la vendita all’asta sarà inevitabile e con sorpresa di tutti ad acquistare la proprietà sarà proprio l’arrogante Lopachin. A Ljuba non resta che far ritorno a Parigi in soccorso dell’anziano amante, Anja seguirà l’eterno studente Trofimov verso un incerto futuro, mentre Varja, incapace di manifestare i suoi sentimenti al nuovo proprietario, insieme allo zio si dovrà trasferire in città in cerca di un lavoro. Nella casa vuota e silenziosa viene involontariamente abbandonato il vecchio servitore Firs, simbolo della fine di un’epoca.
Grandi registi come Luchino Visconti nel 1965 con Rina Morelli nel ruolo di Ljuba e Giorgio Strehler prima nel 1974 con Valentina Fortunato e poi nel ’77 con Valentina Cortese, senza dimenticare Peter Brook con Natasha Perry
nel 1981, si sono cimentati con questo capolavoro. Tra gli allestimenti più recenti ricordiamo quello memorabile di Lev Dodin del Teatro Maly di San Pietroburgo e quello del nostro Alessandro Serra. Ad affrontarlo tocca ora a Rosario Lisma, regista, fecondo drammaturgo e attore. “Difendere il giardino dall’abbattimento è difendere la propria identità, i ricordi, la poesia, la musica e tutto ciò che d’immateriale anima la vita umana. Una inazione che è scandalosa follia suicida di fronte alla soluzione drastica ma efficace offerta da Lopachin, figlio dei servi della tenuta, un tempo bambino escluso dalla stanza dei giochi e dall’amore, oggi brillante uomo d’affari, ansioso di riscatto presso i proprietari in rovina. Da una parte i falliti che però conoscono le ragioni del cuore, dall’altra il campione della ragione ma analfabeta dell’anima. E voi da che parte volete stare? E’ questo che vorrei chiedere agli spettatori. E’ questo, io credo, che l’autore volesse chiedere loro.”
Coprodotto da Tieffe Teatro, Teatro Nazionale di Genova e Viola Produzioni, lo spettacolo vede in scena Milvia Marigliano, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas, lo stesso Lisma che ha curato anche l’adattamento, oltre alla voce fuori campo di Roberto Herlitzka. Debutto l’8 febbraio al teatro Menotti di Milano dove rimane sino al 26/2, poi al Nazionale–Ivo Chiesa di Genova (28/2-12/3), Mercadante di Napoli (14-19/3) e Sala Umberto di Roma (21/3-2/4).
Dramma post romantico che celebra i valori dell’amore e dell’amicizia, Cyrano de Bergerac è opera del poeta drammatico Edmond Rostand (1868-1918), ispiratosi all’omonima figura dello scrittore del seicento francese, precursore della letteratura fantascientifica. Si racconta del triangolo amoroso che unisce lo spadaccino Cyrano, il cadetto Cristiano e l’avvenente Rossana di cui i due uomini sono entrambi invaghiti. Il primo, colto e sensibile ma penalizzato da un aspetto disarmonico (il celebre naso che “lo precede di un quarto d’ora dovunque vada”) non ha il coraggio di rivelare alla ragazza i suoi veri sentimenti, perché si rende conto che per lei può essere solo un caro amico con il quale condividere la conversazione intelligente e i versi sulle schermaglie amorose: lei è infatti presa dal barone Cristiano, bellissimo e affascinante ma incolto e dall’eloquio e fantasia assai miseri. Per compiacerla, anche se è l’ultima cosa che vorrebbe fare, Cyrano acconsente alla sua richiesta di diventare amico del rivale, ignara però che arriverà a sostituirlo nella famosa scena del balcone, quando suggerisce a Cristiano le parole più convincenti per manifestarle la sua passione. Presto i due partono per la guerra e sarà ancora
Cyrano a scriverle lettere infuocate alfine di tener vivo il rapporto. Dopo la morte in battaglia di Cristiano, l’altro non avrà comunque il coraggio di rivelare a Rossana la verità, nonostante lei abbia cominciato a sospettare l’inganno. Passano molti anni e la donna si è ritirata in un convento dove ogni sabato Cyrano si reca a visitarla, sino a quando, caduto in un’imboscata, muore tra le sue braccia, confessandole finalmente il suo amore.
Nella storia del nostro teatro tanti sono stati gli attori cimentatisi con il personaggio: da Franco Branciaroli, a Massimo Popolizio, Alessandro Preziosi e, in chiave musicale, Domenico Modugno, ma il pensiero corre soprattutto a Gigi Proietti e alla sua messa in scena del 1985. Dopo i successi con l’amato Molière, Arturo Cirillo, proprio ispirandosi a Modugno, ha deciso di riproporre la pièce. “Andare con il ricordo al musical Cyrano visto da ragazzino al Politeama di Napoli è per me risentire, forte come allora, la commozione per una storia d’amore impossibile ma non per questo meno presente, grazie alla finzione. Il mio spettacolo non è ovviamente la riproposizione di quel musical ma una contaminazione della vicenda di Cyrano, accentuandone di più il lato poetico e visionario di un uomo di spada e eroe della retorica, con delle rielaborazioni musicali, da Edith Piaf a Fiorenzo Carpi. Un teatro canzone o un modo per raccontare la famosa vicenda d’amore di un uomo o personaggio che non si considerava degno d’essere amato attraverso non solo le parole ma anche le note.”
Insieme a Cirillo, responsabile anche dell’adattamento e della regia, istrionico Cyrano, troviamo la Rossana di Valentina Picello, poi Rosario Giglio, Francesco Petruzzelli, Giulia Trippetta e Giacomo Visentini. Le scene sono di Dario Gessati, i costumi di Gianluca Falaschi e le musiche, originali e rielaborate, di Federico Odling. Al teatro Elfo Puccini dal 7 al 12/2; dopo Milano lunga tournée a partire dal Gustavo Modena di Genova (14-26/2), Mercadante di Napoli (1-12/3), Storchi di Modena (16-19/3), Comunale di Thiene (21-23/3), Toniolo di Mestre (24-26/3) e Sociale di Brescia (29/3-2/4).
a cura di Mario Cervio Gualersi