Dopo l’anteprima al MART di Rovereto (2022), in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Achille Funi (1890-1972), il Palazzo dei Diamanti di Ferrara gli ha reso omaggio ospitando nelle sue sale una grande antologica di 130 opere che riflettono i principali movimenti artistici del tempo, cioè la prima metà del Novecento, ai quali Achille Funi prese parte.
Alan Fabbri, sindaco di Ferrara, sottolinea che celebrare Funi e il suo straordinario talento, significa porre l’accento su un momento fondamentale della storia artistica della città: quello impresso sulle pareti e sul soffitto della Sala dell’Arengo del Palazzo Municipale dove Funi ha raccontato il Mito di Ferrara.
Il progetto espositivo, che guarda all’intera attività dell’artista, si focalizza sugli anni tra il 1933 e il 1937, periodo fondamentale per la città di Ferrara, prendendo spunto dalla concomitanza di due eventi: da un lato l’inaugurazione del Regio Museo di Spina, ora Museo Archeologico Nazionale, avvenuta nell’ottobre 1935 nel restaurato Palazzo Costabili, dall’altro l’impresa decorativa condotta nel triennio 1934-1937 da Achille Funi nella Sala della Consulta in Palazzo Comunale.
La mostra evidenzia una parabola creativa ricca e complessa, un originale e sensibile interprete del contesto artistico della prima metà del Novecento: dalle ricerche futuriste alle poetiche del Realismo magico, dal dialogo con la Nuova Oggettività tedesca al moderno classicismo del gruppo Novecento, fino al muralismo degli anni Trenta.
Innamorato dei miti classici e della cultura rinascimentale, Funi attinge alla tradizione figurativa antica, ma guarda anche al linguaggio più attuale di Cézanne, Picasso, Derain, de Chirico, plasmando un originale universo dove s’intrecciano realtà e immaginazione.
Dagli esordi di Brera e fino alla piena maturità, Funi sperimenta tutte le tecniche pittoriche: olio, tempera, acquerelli, su tavola e tela, sanguigna, cartoni preparatori e disegni, affresco e mosaico, ricercando i segreti dei grandi maestri come Cosmè Tura, Michelangelo e Tiziano che hanno nutrito il suo spirito come la sua mano.
Il percorso espositivo è scandito dai massimi capolavori dell’artista e propone un affascinante viaggio nell’universo della pittura.
Dopo le prime prove accademiche, rare le opere giovanili, uscito dalla Accademia di Brera Funi si dedica alla ricerca d’avanguardia e vive una fase futurista piuttosto breve e di segno moderato, che nasce dalla frequentazione di Boccioni, Carrà, Russolo e Bonzagni, ma senza coinvolgimenti estremi; pur avvertendo il bisogno di rinnovamento, non aderisce al Futurismo e non ne condivide l’ideologia.
Opere di quegli anni sono Uomo che scende dal tram (1914) e Il motociclista, forti espressioni del moto e della forma, e alcune visioni urbane.
Funi guarda agli artisti milanesi ma anche al Cubismo, a Dufy, Delaunay e Macke e torna con insistenza a Cezanne. Di ispirazione cubista sono Autoritratto futurista e Giovinetta del 1913. Non ha dubbi sul fatto che fosse necessaria una pittura civile, capace di trasmettere i valori della grande tradizione italiana.
Arriva la Grande Guerra e Funi parte condividendo quella drammatica esperienza con i compagni futuristi Boccioni, Marinetti, Sironi e con gli interventisti mostrando molto entusiasmo per la vicenda bellica. Quando possibile, tra una operazione militare e l’altra, Funi e gli altri artisti trovano il tempo per disegnare. Sintetico, un po’ alla maniera di Cezanne, Funi disegna le pause e le attese, la gavetta, soldati a riposo, la lettura della posta da casa. Tutte espressioni autentiche di una quotidianità solo in apparenza serena, e tutte purtroppo perdute.
Termina la guerra e terminano le avanguardie mentre c’è un ritorno all’ordine e alla classicità che Funi, ben contento di questo cambio, rilegge in chiave moderna in una sintesi tra passato e presente che si ritrova nelle diverse sanguigne. Guarda a Cezanne, a Derain e a Leonardo. Del 1917 sono le opere: La mia famiglia e Margherita Sarfatti e la figlia Fiammetta. Uno sguardo alla pittura metafisica che Funi utilizza ma senza restarne conquistato è parte della sua sperimentazione. Negli anni del dopoguerra la transizione è espressa anche in alcune opere laddove la ricerca di forme e volumi non è sempre omogenea. Del 1920 è Il bel cadavere (le villeggianti) di ispirazione rinascimentale e leonardesca.
Una delle sale è interamente dedicata al disegno, matrice della creazione, che Funi praticò come disciplina, perché da esso deriva la credibilità della immagine, prestando attenzione ai singoli elementi della immagine stessa come alla composizione generale.
Altrettanto rigoroso era con i suoi allievi. In questa sala sono raccolte testimonianze che partono dal primo saggio dell’artista quindicenne fino agli anni maturi.
Il 1920 è un anno fondamentale per Funi. Prende le distanze dai trascorsi futuristi come dalle imitazioni dell’antico per cercare una moderna ricostruzione delle forme. Firma il manifesto Contro tutti i ritorni in Pittura per ricercare un nuovo linguaggio pittorico.
Il Novecento artistico, guidato da Margherita Sarfatti, che proponeva un ambizioso programma di espansione culturale, nasce in quell’anno e sarà ufficializzato tre anni dopo a Milano in occasione della prima mostra del gruppo dei fondatori che sono Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Piero Marussig, Gian Emilio Malerba, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, tutti pittori ispirati, appunto, dalla Sarfatti al recupero di una moderna classicità. Il ferrarese è fra tutti il più fedele all’ideale classico e alla purezza del segno del Quattrocento.
Nel 1920-1923, il Realismo Magico di Funi si esprime con elementi ricorrenti: predomina la figura, la geometria dello spazio, l’impianto neorinascimentale. In questa sala sono esposti capolavori, La Terra, Maternità, l’Acqua, che evocano Tiziano, Raffaello, Leonardo.
Ma in lui c’è anche la contemporaneità di Derain e Picasso (Lettura domenicale, l’austera Saffo, l’androgina Venere).
Viaggia in Italia e all’estero, partecipa a tutte le mostre organizzare dal gruppo, recuperando il colore e il tema del paesaggio grazie alla frequentazione della Liguria, della Versilia e di Roma (Marina con Barche, Spiaggia di Forte dei Marmi, Donna con i pesci dove si intravede un tocco “pompeiano”).
Tra gli anni ’30 e ’40 Funi, sognatore agnostico e cantore di miti, come lo descrive nel 1940 l’amico de Chirico, si rifugia nei sogni senza tempo, dando vita a un popolo di divinità, eroi e ninfe. Negli anni della sua maturità resta fedele alla forma e alle formule classiche, abbandonando gli ideali del Novecento non più attuali. E’ pur sempre animato da alti ideali civili con forte valenza sociale che lo portano a guardare alle gloriose civiltà del passato fondate sulla integrazione tra le arti.
Il percorso della mostra ci porta verso la conclusione, mentre Funi affronta i generi della storia dell’arte con uno stile del tutto personale: dal ritratto alla pittura storico-mitologica, testimoniata da Publio Orazio uccide la sorella, dalla natura morta al paesaggio con Il Foro romano.
Considerato, insieme con Mario Sironi, tra i pochi, veri pittori murali del XX secolo, Funi si dedica all’affresco fin dall’inizio degli anni Trenta apprendendone i procedimenti tecnici. Per lui il ministro Bottai istituisce a Brera nel 1940 la cattedra di affresco.
In mostra sono esposti i cartoni preparatori dei principali cicli murali, una summa pittorica del lavoro dell’artista, degno erede dei grandi maestri della Officina ferrarese, che si impegna attivamente anche nella decorazione dei nuovi edifici pubblici sorti nell’ambito di una vasta attività edilizia e urbanistica promossa dal regime.
Gli ideali civili che lo hanno sempre animato si riversano in questa forma d’arte e si incarnano in un’epica grandiosa e visionaria.
Con il Mito di Ferrara Funi illustra la storia cittadina tra mito e leggenda, narrando episodi tratti dalla Gerusalemme liberata e dall’Orlando furioso e nascono composizioni visionarie come San Giorgio che uccide il drago e liriche come La città assediata, Angelo e Il mito di Fetonte. Colossali le figure di Ercole, Marte, Mercurio, Apollo, ispirate alla statuaria greco-romana.
Funi si fa cantore di Ludovico Ariosto e di Torquato Tasso, elevando la storia della città estense a una dimensione universale.
La mostra, nata da un’idea di Vittorio Sgarbi, è stata curata da Nicoletta Colombo, Serena Redaelli e Chiara Vorrasi, con l’organizzazione di Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, e con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna.
E’ necessario dire che la mostra Achille Funi, un Maestro del Novecento tra mito e realtà si è purtroppo chiusa a Ferrara a fine febbraio. Ma è importante aggiungere che vale la pena ricercare e studiare questo artista fedele agli ideali classici e alla purezza dell’arte del Quattrocento, che ha attraversato i generi della storia dell’arte, cantore di miti, amante della statuaria greco-romana e di Piero della Francesca, interprete di una personale modernità, che ha lasciato una impronta indelebile nell’arte del Novecento.
a cura di Daniela di Monaco