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Ascanio Celestini immagina la vita di Francesco oggi, come il santo vivrebbe la povertà nell’Italia contemporanea e quale compagno di strada sceglierebbe, per non essere semplicemente povero, ma servo dei poveri. E’ andato in scena al L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato di Milano, lo spettacolo Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato, di e con Ascanio Celestini, una produzione Fabbrica, Fondazione Musica Per Roma e Teatro Carcano. Abbiamo avuto l’occasione di assistere a una prima, speciale, la rappresentazione natalizia al Piccolo dello spettacolo che proseguirà poi il suo viaggio al Teatro Carcano, dove sarà rappresentato dal 24 al 28 gennaio.
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Ascanio Celestini cantastorie, quasi sempre in penombra accompagnato da Gianluca Casadei che suona. Scena spoglia, teatro nel teatro, prove che si susseguono per spettatori che non arrivano: pellegrini turisti, spettatori di un ipotetico spettacolo, metafora di uomini che non arrivano, pigri, impigriti senza sogni.
Come un mantra l’attore ripete che in cielo ci sono le stelle, tante stelle che non si possono contare e l’aspirazione al cielo, all’infinito con l’umiltà di non arrivare mai ad abbracciarlo con lo sguardo è il vero prodigio del Natale. Con questa stessa frase si conclude lo spettacolo che racconta una storia che finisce male: i seguaci di San Francesco sono pochi, sempre meno e nella volta celeste affrescata di stelle della Basilica di Assisi, sono così pochi che si possono contare.
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La storia raccontata a più riprese è quella di Francesco, reinterpretato nei secoli, attraverso lo sguardo di una chiesa disattenta alla povertà e allo spirito del Vangelo, quella di Innocenzo III sua contemporanea e poi lo sguardo dei disperati, degli analfabeti come Giobbe, il magazziniere del supermercato, dei migranti ma anche dei poveri che in realtà sono miseri, come gli zingari, emarginati morali.
Francesco si chiama in realtà Giovanni e nasce da una madre francese quando il padre sta in Francia a vendere stoffe pregiate, ricco mercante. Così lo chiamano “francesco”, insomma un figlio francese che si legge tanti libri della letteratura cavalleresca. Diventa cavaliere o vorrebbe diventarlo, va in guerra, ma finisce in galera. Quando esce dal carcere deve ricostruire le case dei nobili che il popolo ha cacciato da Assisi e impara a fare il muratore. Così diventa il santo che impara a ricostruire la Chiesa di Dio in terra. Ma se Francesco nascesse nel 1982 invece che ne nel 1182? Se tornasse povero in un parcheggio di un supermercato? Quale presepio farebbe tra i cassonetti dell’immondizia?
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Francesco è un uomo controcorrente che, pur essendo ricco, scelse non solo di essere povero, ma di farsi servo dei poveri. Un cavaliere che non volle più fare la guerra e che, da frate, in tempo di crociate, si recò in Terra Santa predicando la pace e la fratellanza.
A lui si deve l’invenzione del presepe, che il santo allestì per la prima volta a Greccio (Rieti): «Nella notte di Natale del 1223 Francesco ha fatto in quel piccolo paese il suo primo presepe. Un bue, un asino e una mangiatoia. Niente altro. Serviva mostrare che Gesù era nato povero. In un paese povero, un posto di poveri». Il presepe non vuol essere una pantomima ma la rappresentazione dell’assenza, del vuoto, della paglia al posto dell’oro, di quella povertà materiale che è paga di una ricchezza interiore.
Rumba è la terza parte di una trilogia composta anche da Laika (2015) e Pueblo (2017). I due personaggi sono gli stessi in tutti e tre gli spettacoli, vivono in un condominio di qualche periferia e si raccontano quello che gli succede. Nella povera gente del loro quartiere riconoscono facce e destini analoghi a quelli degli ultimi che Francesco ha incontrato otto secoli fa.
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In particolare emerge il personaggio Giobbe, magazziniere analfabeta del supermercato che ha organizzato il magazzino senza nemmeno una parola scritta, che muore nel bagno senza insegna perché per lui le parole sono solo disegni. C’è Joseph, che è partito dal suo paese in Africa, ha attraversato il deserto, è stato schiavo in Libia e poi naufrago nel mare. Forse si è salvato, ma in Italia è finito in carcere. Appena uscito è stato un facchino, ma adesso è un barbone che tutti evitano perché ripugnante e che è la rilettura del mendicante che benedice Francesco quando il padre lo maledice.
Fuori dal bar dove ci sono solo uomini per lo più ubriachi che passano la giornata a guardare la televisione c’è lo zingaro, che ha cominciato a fumare a otto anni e sta ancora lì che fuma, accanto alla fontanella.
Ascanio Celestini racconta il Francesco di oggi, che trova i propri personaggi in strada, tra le case popolari, tra coloro che, oggi come ieri, nessuno vede: «Guarda in basso, nel parcheggio davanti alla finestra della sua casa popolare. I personaggi sono tanti e condividono lo stesso asfalto, la stessa condizione umana». La vita cambia, la città si trasforma ma il senso o meglio il non senso restano gli stessi: dove c’era un prato che era diventato una discarica ora c’è un parcheggio e un grande supermercato che sarebbe dovuto diventare l’occasione di lavoro per quella periferia decentrata, ma di italiani con contratto a tempo indeterminato vi lavorano solo in due; gli altri sono africani, immigrati, gli ultimi degli ultimi, che possono essere sfruttati ancora più facilmente.
L’invito finale è però ad alzare la testa, a guardare il cielo.
a cura di Ilaria Guidantoni