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Da gennaio 2021 fino a fine anno alla Galleria Building a Milano è di scena La forma dell’oro che in questo momento presenta Antonello Viola per il quale la pittura è un manifesto, l’affermazione di un ideale costitutivo. Il nostro viaggio recupera la tappa precedente con Rä di Martino, romana, classe 1975 e anticipa la prossima tappa con Jan Fabre, un’esposizione collettiva di lunga durata per BuildingBox, progetto che ci è stato raccontato da Stefano Menichini, uno dei curatori della Galleria.
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Per Antonello Viola dalla pittura non esistono vie di fuga, come non si può fuggire troppo lontano da sé stessi, tanto che l’artista delimita lo spazio dedicato al colore tracciando un confine nelle sue opere, entro il quale poi stratifica, sottrae, cancella e sovrascrive con pigmenti a olio e foglia oro. L’artista trova così la compostezza formale che gli permette di muoversi libero nella dimensione temporale e un suo lavoro può durare anni, in cui le velature a olio e le campiture d’oro si stratificano formando la pelle dell’opera, che porta tutti i segni del tempo, delle scelte e dei ripensamenti.
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Nei suoi lavori la figura sembra essere evaporata e anche il supporto alla pittura perde peso. Nel corso della sua ricerca Viola ha abbandonato la tela, passando alla carta giapponese e al vetro, per allontanarsi dal romanticismo, dall’accademia che la tela porta con sé: una scelta interpretata nel segno dell’assoluta purezza pittorica. Non cerca infatti metafore, non gli interessa dare una spiegazione o una lettura narrativa del suo lavoro ma nelle sue opere affiora un particolare misticismo, raggiunto con rigore e metodo, per rendere visibile l’invisibile. L’oro fa parte della sua palette da una decina d’anni, l’artista ne ha studiato potenzialità cromatiche e materiche.
La presenza di campiture dorate di vari colori conferisce ai suoi lavori una connotazione iconica, citando i fondi oro medievali e le icone bizantine, ma con un respiro contemporaneo e quasi iconoclasta che si rivolge a dinamiche interiori, a ricordi personali e alla percezione del tempo: corruttibile/inossidabile, materiale/spirituale, privato/universale, sono gli opposti che emergono dall’uso del re dei metalli da parte di Antonello Viola.
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Precedentemente è stata esposta Rä di Martino con Allunati #19, opera in foglia d’oro, stampa ai pigmenti d’archivio su carta cotone, opera specificamente pensata per lo spazio di BUILDINGBOX. Allunati è il titolo di una serie di opere iniziata nel 2020, in cui sullo sfondo di un placido e silenzioso paesaggio lunare si stagliano silhouette dorate e bloccate in azioni domestiche, che hanno a che fare con la vita quotidiana sulla terra. Attraverso contrasti visivi e ribaltamenti di senso, l’artista pone interrogativi su ciò che si imprime nella nostra memoria, gioca con il meccanismo della reminiscenza e della citazione, portando allo scoperto l’inafferrabilità dei nostri processi mentali. L’artista prende spesso ispirazione dalle mitologie alimentate dal cinema e dalla televisione, mescolando in maniera poetica, ironica e spiazzante realtà e fiction.
L’uomo ha sempre fantasticato di mettere piede sulla luna e ancor prima di astronomi, ingegneri, fisici e scienziati, gli artisti sono arrivati molto vicini alla “realtà lunare” attraverso l’intuizione e l’immaginazione. Basti pensare al regista Georges Méliès, che nel film Le Voyage dans la lune del 1902 anticipò di quasi settant’anni una fra le immagini più famose ed emozionanti della storia umana: la terra vista dalla luna. L’opera esposta presenta un’immagine in bilico tra identificazione immediata (un uomo nell’atto di camminare, proprio come ci si trova a fare davanti alla vetrina) e sovrapposizione di ricordi visivi dati dal collage di fotografie del suolo lunare divulgate dalla NASA. Questo lavoro partecipa a un immaginario collettivo che fluttua tra realtà quotidiana, eventi straordinari e finzione cinematografica, facendo sottilmente affiorare il paradosso della cosiddetta “normalità”. Nel contrasto con il bianco e nero dello sfondo emerge l’oro in foglia. Il metallo prezioso riveste e protegge l’allunato/stralunato passante, una sorta di poetica tuta spaziale per la nostra vita di tutti i giorni, oggi meno scontata che mai.
La primavera sarà conclusa da Jan Fabre che ha realizzato innumerevoli autoritratti nel corso della sua carriera, in forma di sculture, disegni, film-performance. Nel solco della tradizione storico artistica, seguendo le orme dei maestri di epoca medioevale, rinascimentale e barocca, l’artista usa sé stesso come prima fonte di studio anatomico e psicologico. La rappresentazione dell’uomo nel suo lavoro aderisce al racconto della condizione dell’artista come metafora della condizione umana, tesa tra finitezza ed eternità. Il suo autoritratto a grandezza naturale dal titolo Je suis une erreur, è una scultura in bronzo che piange e ride al contempo, esprimendo così il paradosso della vita umana lontano da qualsiasi forma di cinismo esistenziale. L’artista si espone e fa da specchio all’osservatore. “I am a mistake because I want what I can’t have (lights a cigarette) … I am faithful to the pleasure that is trying to kill me”. Queste parole sono tratte dal monologo con cui Jan Fabre, nel 2007, metteva in scena il suo manifesto di fede ostinata e contraria, I am a mistake.
L’uomo, l’artista, consapevole del proprio destino, loda la sigaretta e l’autodistruzione che ne deriva, affermando apertamente di essere lui stesso un errore, perché non rispetta le regole e pretende l’immortalità. Nell’iconografia fiamminga della natura morta e della vanitas, la pipa appare a indicare la fugacità della vita, il suo essere destinata al dissolvimento, proprio come il fumo, come il tabacco che brucia e si consuma scandendo il tempo. Anche la vanitas dell’immancabile sigaretta di Fabre, come tutte le vanitas, è memento mori, ma è soprattutto fascino irresistibile di ciò che svanisce per mutare forma continuamente. Devilish Ashtray, l’opera di Jan Fabre per il ciclo La forma dell’oro, è un autoritratto con corna da diavolo, la bocca spalancata in una linguaccia beffarda, pronta a ricevere il mozzicone della sigaretta. Fabre dichiara uno spirito metamorfico e ribelle che supera limiti, che vuole rendere possibile l’impossibile a ogni costo, che con genio prometeico fa esplodere la guerra in paradiso. In altre parole, l’artista cede la sua anima all’arte e accetta di pagarne il prezzo. Il diavolo, del resto, è l’inventore della metamorfosi, e il daimon, a metà tra umano e divino, è per la filosofia greca l’intermediario tra le due dimensioni. La foglia oro conferisce all’opera un’aura di spiritualità che si ricollega allo studio dei maestri del passato; il colore usato nei dipinti medievali e rinascimentali per rappresentare il sovraumano diventa, per l’artista contemporaneo, materiale scultoreo per il suo autoritratto. Il Fabre-diavolo sovverte le regole, con l’oro celebra l’anarchia tutta umana dell’arte e della vita. “I am a mistake and I love it”, direbbe l’artista.
a cura di Ilaria Guidantoni