Lasciata la scuola quando era adolescente, ha imparato da solo il russo e poi ha tradotto in ebraico Gogol, Puskin e Cechov. Roy Chen (classe 1980) è nato a Tel Aviv da una famiglia di lontane origini spagnole per parte di padre e marocchine per quelle di madre. Oltre a essere oggi un affermato scrittore (Anime è il suo romanzo più noto), a 19 anni ha iniziato a lavorare nel teatro e dal 2007 ricopre il ruolo di dramaturg per il teatro Ghesher di Giaffa, uno dei più importanti in Israele.
Nel 2019 è stato invitato ad assistere a una serie di lezioni di teatro presso il centro di salute mentale Abravanel per giovani e giovanissimi: dall’incontro con il personale medico e con i pazienti è nata l’ispirazione per il testo Chi come me, diventato uno spettacolo che ha debuttato l’anno successivo ed è in cartellone da quattro stagioni. Prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, rimane in scena fino a stasera 5 maggio.
“L’intento delle lezioni”, precisa Chen, “era quello di sollecitare ragazzi tra i 12 e 18 anni a scrivere e recitare dei testi teatrali che sarebbero poi sfociati in uno spettacolo. Con loro ho trascorso molte ore durante le lezioni, i pasti, nel cortile e nelle loro stanze: ho avuto modo di vedere i loro disegni, leggere le loro poesie e ho giocato con loro a Chi come me, un gioco degli anni Settanta, nato per rompere il ghiaccio in un gruppo. Mi sono aperto con loro, non meno di quanto loro si sono aperti con me, a volte sono tornato a casa con il sorriso, pieno di ottimismo e a volte non vedevo la strada per le troppe lacrime. Infine due maestre di teatro e una biblioterapista hanno portato avanti il percorso per un mese e alla fine hanno messo in scena lo spettacolo, per un’unica volta, davanti a un pubblico di genitori, medici e personale del reparto. Sapevo di non poter ripetere quello che avevo visto ma ho seguito una mia strada. Ho scritto un testo teatrale sul bambino che sono stato, sui mie amici, parte dei quali non sono sopravvissuti all’età dell’adolescenza. Speravo che questo lavoro potesse far salire almeno per un po’ il livello di compassione che è sempre a rischio di affievolirsi”.
Entriamo quindi anche noi nella struttura di Orot e facciamo la conoscenza con Barak, 16 anni, ipercinetico, aggressivo e soggetto a violenti attacchi di collera; Emanuel, 14 anni, autistico; Alma, 17 anni, depressa e reduce da un tentato suicidio; Ester, 13 anni, schizofrenica, e Tamara, 15 anni, che sta sviluppando una disforia di genere per cui si sente e vorrebbe diventare un maschio. A prendersi cura di loro è il dottor Baumann, psichiatra che con pazienza e umanità cerca di penetrare nel loro mondo e aiutarli a trovare un’accettabile dimensione di convivenza con se stessi e con gli altri.
Nell’ambito delle attività da lui ideate, decide di chiamare la signorina Dorit, docente di teatro, affinché organizzi un breve corso che dia poi origine a uno spettacolo. L’impatto di quest’ultima con i degenti non è dei più incoraggianti: dapprima viene rifiutata e ostacolata in ogni modo, ma poi, grazie anche al gioco Chi come me (una modalità per esprimere le proprie preferenze e idiosincrasie) riesce piano piano a coinvolgerli e rompere la barriera della diffidenza.
Come Baumann viene messa a parte delle loro fissazioni: Ester, ad esempio, aveva subito una frattura al braccio poi risolta, ma è convinta di averlo ancora rotto; Emanuel con grande manualità crea origami che simboleggiano farfalle e crede che alla millesima possa esprimere un desiderio che si avvererà. Dorit deve confrontarsi con il narcisismo di Barak che ha un rapporto conflittuale con il fratello violinista che ha già aggredito e con l’autolesionismo di Alma che si infligge tagli e pensa continuamente alla morte. Tamara all’inizio non le parla neppure ma poi si lascia persuadere a suonare l’ukulele e le confida la volontà di cambiare sesso e farsi chiamare Tom.
Nel centro sono in vigore regole che i ragazzi non sempre sono disposti a rispettare: è vietato toccarsi e gli abbracci vengono sostituiti intrecciando le braccia, le ore di sonno e la sveglia sono scandite da una campanella seguita dalla musica scelta a turno da ognuno di loro: dalla techno al rap e al pop. Le cose sembrano procedere con comprensibili alti e bassi ma precipitano quando, a causa di un paio di forbici che Dorit aveva dato a Emanuel, quest’ultimo, assillato da Telma, per poco non la ferisce. Dopo un aspro confronto con Baumann l’insegnante vuole andarsene, ma viene convinta dai ragazzi a restare e così lo spettacolo può avere luogo.
E’ questa l’occasione per conoscere i genitori dei giovani pazienti: com’è superfluo far notare, parte della loro patologia (o l’acuirsi della stessa) dipende dalla famiglia e dai problemi al suo interno. C’è il padre ebreo ortodosso e fanatico religioso di Ester; la madre di Tamara/Tom, ex ballerina russa che. a rischio di farla diventare anoressica, aveva preteso che la figlia studiasse danza e seguisse le sue orme, senza mai accorgersi della mutazione che sta attraversando; il padre di Barak considera il figlio un pericoloso e ingestibile malato di mente; i genitori di Alma, separati, ricchi e sempre assenti e quelli di Emanuel, maniacali e ipocondriaci.
Nello spettacolo i ragazzi saranno liberi di esprimere metaforicamente le loro pulsioni nascoste o represse: Ester indosserà una maschera da leone e ruggirà, Tamara/Tom impersonerà un pugile, Tamara una psichiatra, Emanuel un artista e Barak un attore. Proprio dal personaggio di quest’ultimo arriva un segnale di speranza quando viene dimesso: riuscirà a non tornare più? C’è infine un toccante “a parte” di Baumann che confida le proprie fragilità e le tante incertezze di cui la sua professione è costellata a cui fanno eco le note di Karma Police dei Radiohead.
La regia di Andrée Ruth Shammah (che firma anche adattamento e costumi) ha benissimo orchestrato la coralità del testo, dando però rilievo anche a ogni singolo personaggio, suscitando emozioni e partecipazione, mettendo lo spettatore davanti a una problematica che sappiamo essere quanto mai attuale, visto il ricorso a psicofarmaci, disturbi alimentari e sindromi depressive che affliggono le giovani generazioni, assetate d’amore e attenzioni.
E’ stata poi una sorpresa scoprire dei talenti insospettati negli interpreti al loro debutto sulla scena: Chiara Ferrara è Alma, provocatoria e supponente ma intimamente fragile; Samuele Poma dà a Barak la giusta dose di tracotanza rimanendo però al contempo infantile; a Emanuel conferisce disarmante remissività unita a determinazione Federico Di Giacomo; Ester è Alia Stegani, arrendevole, ma nel profondo ribelle; prima chiusa nel suo segreto poi risoluta nel coming out è la Tamara/Tom di Amy Boda.
A completare il cast c’è Paolo Briguglia, dottor Baumann empatico e disponibile; Dorit è Elena Lietti, inventiva e resiliente, mentre a dar voce a tutti i genitori, prima a turno e poi insieme in un rutilante carosello finale, sono i poliedrici, generosi e talvolta esilaranti Sara Bertelà e Pietro Micci. L’allestimento scenico è curato da Polina Adamov che ha disposto candidi lettini anche tra gli spettatori, in armonia con la struttura a pianta centrale della funzionale e nuova Sala A2A; traduzione di Shulim Vogelmann, luci di Oscar Frosio e musiche che alternano Debussy, Vivaldi e Brahms a quelle di Michele Tadini.
a cura di Mario Cervio Gualersi