Il Rivoluzionario di Tommaso Urselli, liberamente ispirato al libro di Claudio Facchinelli Lumpatius Vagabundus. Sulle tracce di Nikolaj Sudzilovskij medico e rivoluzionario, con Mario Sala e Angelo Tronca, per la regia di Alberto Oliva (scenografia di Marco Muzzolon, costumi di Stefania Pravato, disegno luci di Fabrizio Visconti, sound design con musiche originali Idi van Bert, assistente alla regia Fabrizio Kofler, produzione A.M.A. Factory), è di scena alla Sala della Cavallerizza del Teatro Litta di Milano fino a domenica 25 febbraio. In prima assoluta (prossimamente a Torino, date da definirsi) è uno spettacolo, frutto di un lavoro complesso di riduzione e dalla genesi romantica.
Regia incisiva, riduzione del testo valida che restituisce parole dense, un buon ritmo e un’interpretazione convincente: un’ora di spettacolo che corre veloce e srotola un filo che tiene attaccato lo spettatore alla vicenda. Il racconto si srotola tra la narrazione della vita del protagonista e del suo vagabondare e una riflessione sulla ricerca del senso dell’essere uomini.
L’idea dello spettacolo nasce dalla presentazione del libro di Claudio Facchinelli a Bookcity nel 2021 alla quale assiste il regista che si innamora della storia anche se la realizzazione sembra complessa quando Rosana Rosatti, appassionata di teatro e di letteratura, di fine cultura, moglie di Facchinelli, decide di sostenere lo spettacolo come regalo per i suoi 80 anni. Nasce così quest’avventura la cui regia punta sulla modernità politica del testo fino a sfiorare nel finale l’attualità e lo fa con garbo mantenendo la liricità del testo e il profilo di una riflessione esistenziale.
Il protagonista diventa così un precursore di associazioni quali Medici senza Frontiere: il suo desiderio è di realizzare una “clinica mobile” per essere dovunque ci sia bisogno come l’istruzione rappresenta la medicina della menta.
La storia comincia recitata in lingua russa ed è il pappagallo che parla, il deuteragonista del medico, che nel libro appare solo in una foto nelle Filippine, ritiro del protagonista, mentre sul palco diventa un personaggio, in veste antropomorfa, forse anche un alter ego, la coscienza allo specchio.
La narrazione inizia con la nascita del protagonista nel 1850, la frequentazione del liceo a San Pietroburgo, quindi l’iscrizione all’Università di Giurisprudenza e, dopo un anno, il trasferimento a Kiev dove inizia la Facoltà di Medicina. Nel 1874 poi è costretto a fuggire dalla Russia e a girare mezza Europa, da Londra alla Bulgaria a Bucarest per approdare negli Stati Uniti, terra di delusione a parte l’unico debito, il nome: dottor Russel. Così arriverà alle Hawai.
Nel silenzio di un paesaggio tropicale c’è un uomo nel suo elegante completo di lino chiaro, colto nel momento di concedersi una tregua e fare i conti con se stesso. È Nikolaj Sudzilovskij, medico e rivoluzionario pressoché sconosciuto, protagonista di molte battaglie, spesso donchisciottesche, intraprese in quattro continenti, e anche scienziato e infine scrittore perché la scrittura aiuta a comprendere.
In questo luogo in cui il tempo sembra non esistere, mentre è in compagnia dell’inseparabile pappagallo Polly che si è portato dalle Hawaii, vediamo alternarsi le sue sfaccettate personalità. L’uomo di medicina che oggi definiremmo “democratica”, il politico poco avvezzo al compromesso, il poeta, il filosofo.
Ognuna rievoca eventi, desideri, visioni e fallimenti che spingono il protagonista verso un ulteriore interrogarsi, ma non certo ad abbandonare la visione utopica che lo ha guidato fin qua. La grande madre Russia non l’ha mai voluto anche se ora vorrebbe offrirgli una pensione al merito per aver diffuso il mondo della Patria e la sua cultura, essere stato portavoce illustre. Ma è troppo tardi, dopo oltre trent’anni molte cose sono svanite e non se la sente più di affrontare il freddo dell’inverno russo.
La convinzione che ha maturato è se essere curati (e accuditi) è un diritto, la medicina è politica ed esiste un’unica soluzione, curare tutti e ovunque, se non si vuole ridurla alla scienza della riparazione dei guasti. Se i soldi mancano si può sempre sottrarre qualcosa al settore militare che semina morte. In realtà si avverte un po’ di nostalgia, quella delle battaglie combattute insieme, delle lotte condivise, ma si assapora anche l’ironia di leggere della propria morte.
La delusione americana di un paese avido e animato di fanatismo ipocrita, lo porta ad approdare alle Hawaii per portare avanti la battaglia per l’Indipendenza dagli Stati Uniti. L’idea di avere figli anche non naturali spinge il protagonista a dar vita a un partito di nativi che vince sui Democratici e sui Repubblicani, anche se arriverà una seconda delusione. La legge sugli alcolici non va giù agli autoctoni che sono pronti a dimenticarsi tutto quello che avevano fatto insieme. Ed è insieme, sottolinea il medico, che si può vincere la maledizione cosmica; diversamente si appassisce e la speranza non è che si salvi non solo il singolo ma l’umanità anche se può sembrare un’utopia. Il messaggio che emerge è la spinta a comprendere e coltivare l’utopia della rivoluzione, i sogni in una generazione che caratterizzata la vecchiaia come assenza di aspettative e senza l’impegno a realizzare un futuro.
Ma il protagonista, Don Quichotte della rivoluzione, ha una fede cieca nell’uomo, malgrado tutte le delusioni. E la spinta a ricominciare a guardare al futuro è prendere il largo affacciandosi sull’oceano e la ricerca di nuova luce. Ma l’avventura ricomincia sotto il segno di nuove insidie, un mare di scarpe, che svelano corpi e aprono le porte su una tragedia. L’attualità entra prepotentemente eppure la chiusura è poetica per chi sente nella propria vocazione il richiamo degli altri. “C’è ancora bisogno di noi”.
a cura di Ilaria Guidantoni