Del premio Nobel Albert Camus, celebre filosofo dell’assurdo, analista dell’alienazione novecentesca, non si può trascurare il suo lato più eterodosso e che si sviluppa in una sorta di eresia del suo stesso pensiero. C’è in una parte della sua produzione, infatti, e in particolare in quelle trecento paginette chiamate La Peste, capolavoro della letteratura mondiale, forse addirittura apice di un certo esistenzialismo, il senso più profondo di uno sgomento che anche a noi sembra, di questi tempi, d’aver vissuto. Il libro di Camus è quasi profetico in questo. Orano, città della sua natale Algeria, è improvvisamente invasa da una misteriosa epidemia. Dai topi all’uomo, il passo è immediato; cadono in molti, uno dopo l’altro, i topi e gli uomini, finché qualche bisbiglio si leva e si trasforma infine in sentenza: è peste. Il Dott. Rieux, alter ego di Camus, è un medico, ateo, che si ritrova a combattere in prima linea, in quella trincea così umana, così lontana da Dio. Cos’è il male e perché esiste? Sono queste alcune delle domande che s’innervano pagina dopo pagina, fino all’estrema consapevolezza dell’impossibilità di una risposta. Ed ecco che appunto l’assurdo irrompe, ecco che sembra somigliare sommessamente a quella noia leopardiana, ed ecco allora che anche Camus trova la sua ginestra: non c’è altra risposta, nel mondo, che nell’uomo. Se padre Paneloux, prete cittadino, svela ai suoi fedeli i segni tangibili di una qualche Apocalisse, salvo poi scendere i gradini del suo altare, come un Cristo qualunque che scende dal cielo, e farsi anch’egli uomo tra uomini, combattendo religiosamente non in un’atarassica predica, ma attraverso una fede militante, altri personaggi invece, come ad esempio Cottard, sguazzano con la loro bassezza nelle paludose e fertili miserie di quella disperazione. Orano è una Milano algerina, una città produttiva e frenetica, solo la peste riesce a riportare gli abitanti al senso intimo della loro esistenza. I caratteri dei personaggi sembrano scolpiti nella materialità dei loro ideali, e “sanguinano”: sanguinano tutti, perché la peste, ci dice Camus, non è in nessun luogo se non dentro di noi. E in un susseguirsi di dialoghi eterni, nei quali l’angoscia dell’uomo si annoda in se stessa, forse la scena più bella, più struggente, avviene proprio in ciò che è “altro” rispetto all’uomo stesso e alla sua stessa vita: il mare. Rieux e Tarrou, co-protagonista del racconto, si tuffano in un bagno catartico, tra le onde che lambiscono la costa: ed è in quell’estraniazione, in quella pausa quasi ascetica, che germoglia come un fiore terreno, come una concreta forma di una divina epifania, la risposta finale, unica possibile, allo strazio dell’esistenza. L’uomo deve combattere, senza mire a un “oltre” illusorio, ma con l’orizzonte profondo della terra che sta calpestando: è un umanesimo pieno, che prescinde nei suoi valori da qualsiasi forma di trascendenza, ma che proprio per questo, appare come una rivelazione ultraterrena e concretamente religiosa. Se Dio è un mistero, la solidarietà umana può strutturarsi come una certezza. Certo, è pur sempre una minoranza quella che ne edifica le fondamenta, sono intermittenti barlumi di speranza, di vita, quelli che Camus fa brillare nelle sue pagine. Perché tutto il resto, nel cuore degli uomini, è o peste o gioia inconsapevole: non c’è altra strada per la mediocrità che questa, nel fondo pittorico di una depressione esistenziale che svilisce il senso più profondo dell’essere comunità.
E, infatti, gli uomini, alla fine, dimenticano. Come se l’oblio fosse per i deboli un’ancora di salvezza.
a cura di Bernardo Giusti
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Bernardo Giusti, nato a Firenze nel 1990, giovane speranza tra i romanzieri italiani ha pubblicato recentemente “Bivium” Edizioni Masso delle Fate.