Una breve panoramica sulle novità più significative della scena romana tra spazi di consolidata tradizione e altri innovativi: l’affabulatore Oscar De Summa ci conduce nella sua Puglia per una storia drammatica con protagonista una donna violata; Massimiliano Bruno firma un testo di Mrozek su una vicenda di migrazione nel corso di un secolo e Giancarlo Nicoletti mette in scena la pièce di Anthony McCarten sugli ultimi due pontefici.
Nel panorama del teatro di narrazione, si colloca come uno degli artisti più singolari per duttilità e invenzione creativa. Ricordavamo Oscar De Summa per la rivisitazione in chiave pop dei classici di Shakespeare (Amleto a pranzo e a cena, Un Otello altro, Riccardo III, Riccardo III e le regine) e per i primi due tasselli della Trilogia della Provincia, Diario di provincia e Stasera sono in vena. Interrotta dalla pandemia, dopo la partecipazione al Festival Internazionale di Marsiglia e in attesa della tournée a Bruxelles, Parigi e Montpellier, è tornata in scena la terza tranche, La sorella di Gesù Cristo. In Diario di provincia Oscar ripercorreva infanzia e adolescenza al suo paese (Erchie in provincia di Brindisi) negli anni ottanta quando imperversava la Sacra Corona Unita, organizzazione criminale di stampo mafioso dedita ai traffici illegali quali il contrabbando di sigarette prima e lo spaccio di droga poi, responsabile anche della morte di un suo caro amico a causa di uno sgarro e cinicamente capace di approfittare del disagio dei giovani. Sarà solo dopo lo scontro con un prepotente malavitoso che lui deciderà di fuggire dal luogo natale, fonte di odio e amore. In Stasera sono in vena ci parla invece del calvario di chi ha scelto la droga ritenendola la panacea di tutti i mali, nella convinzione che una dipendenza, un dolore fisico siano più sopportabili di un dolore dell’anima.
Torniamo a Erchie per La sorella di Gesù Cristo, un potente affresco dove la coralità rappresentata dagli abitanti della
cittadina salentina assume un’importanza pari a quella della protagonista. Maria è una ragazza di straordinaria bellezza dalla quale tutti gli uomini sono attratti: è soprannominata in quel modo per via del fratello, anch’egli assai attraente, alto e con lunghi capelli biondi, che viene sempre scelto per impersonare il Redentore nelle processioni pasquali. Un triste giorno Maria impugna una micidiale pistola Smith & Wesson e, portando ancora sul corpo tracce di sangue, terra e sperma, si dirige verso la casa di Dante, l’uomo che la sera prima, venerdì santo, l’aveva violentata. La sua lunga camminata non sarà un percorso solitario: dietro a lei, simile a un’eroina della tragedia greca, cominciano a incolonnarsi i familiari, nonna compresa, a cui man mano si aggiungono i compaesani, a partire da Ciccillo, seguito da Rosario, presidente del Circolo della Caccia, che imbraccia il suo fucile, presto imitato da tutti gli altri soci. Le donne sono dapprima più restie, qualcuna le rimprovera di aver provocato quel maschio padrone, abituato a prendersi le femmine di suo gusto, tenerle sin che gli aggrada e cacciarle poi senza una parola. E’ quello che è successo a Teresa, la migliore amica di Maria: lei Dante lo aveva certamente voluto ma, condividendo con lui i piaceri del sesso, se n’era poi innamorata. Piena di rancore, anche lei va a ingrossare le fila di quella che diventa una sorta di processione laica dove, dopo qualche istante, tutti, ognuno a suo modo, le manifestano comprensione e la incoraggiano proseguire nel suo intento.
Inaspettatamente si schiera con lei anche la madre del violentatore che prima tentava di difendere quello sciagurato figlio, ma poi accetta l’idea di sacrificarlo in nome della solidarietà femminile. In quel tragitto Maria sembra trasformarsi da ragazza a donna, consapevole di dare il suo corpo in pasto alla folla ma nello stesso tempo con la volontà di riappropriarsene dopo esser stato violato. Dante sembra aspettarla, conscio del destino che lo attende e anzi la incoraggia a portare a compimento il suo disegno. Nel buio del palcoscenico esplode un colpo: sarà stato contro di lui, rivolto verso di lei o a vuoto? Non vogliamo svelarlo ma la domanda di fondo che ci poniamo è se riteniamo giusto usare la violenza per riparare a una violenza.
Oscar De Summa riesce a miscelare in una storia drammatica attimi di ironia e tenerezza che inducono al sorriso; la sua padronanza della voce, sia nel dialetto che in lingua, ci ricorda le magie foniche di Maestri scomparsi, la mimica facciale e la mobilità del corpo gli consentono di spaziare dal maschile al femminile nella variegata galleria dei suoi personaggi: da solo riesce a comporre un affresco e uno spaccato di realtà decisamente coinvolgenti. Una trovata felice è quella di accompagnare il contemporaneo svolgimento della vicenda alla proiezione di un fumetto in bianco e nero a tutto schermo, come eccellente è la scelta della colonna sonora che spazia dai Police, ai Depeche Mode, Eurythmics, Nirvana, l’indimenticabile The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood, sino a Morricone e al Miserere Mei Deus di Gregorio Allegri. Tante le emozioni condivise dagli spettatori del teatro Basilica di Roma, suggestivo spazio con alle spalle una lunga e interessante storia, situato a ridosso della Scala Santa in Piazza San Giovanni, riportato a nuova vita dai padri Passionisti, che con la direzione di Daniela Giovannetti, Alessandro Di Murro e il Gruppo della Creta, è diventato un nuovo polo d’attrazione per gli amanti di una certa tipologia di teatro.
Testimone dell’impoverimento della cultura nella sua Polonia, Slawomir Mrozek (1930-2013), scrittore e drammaturgo, viene spesso affiancato ad autori come Pinter o Ionesco per il suo rifiuto del naturalismo e della realtà quotidiana, accentuati nella produzione teatrale in cui non mancano però anche riferimenti a Witkiewicz e Gombrowicz, più vicini alla tradizione polacca e che perseguivano l’intento di cogliere le contraddizioni del regime comunista in chiave grottesca o satirica. Emigranti, scritto nel 1974 e messo in scena l’anno successivo dal regista Andrzej Wajda a Varsavia, contiene chiari echi autobiografici. Durante un soggiorno in Francia nel 1968 Mrozek denunciò su Le Monde l’appoggio morale dato dal suo paese all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle armate russe. Richiamato subito in patria, decise di rimanere a Parigi: come rivalsa furono bandite le sue opere e i suoi romanzi vennero ritirati dalle librerie. La pièce ci mostra due uomini che in un paese straniero condividono un misero sottoscala dal cui soffitto pendono i tubi fognari. Non potrebbero essere più diversi: uno è un intellettuale socialista-anarchico che ha lasciato il paese per motivi politici e può permettersi di non far nulla tranne leggere e girovagare, mentre l’altro è un operaio che accetta anche i lavori più umili pur di guadagnare e supportare la famiglia lontana con il sogno di poter tornare in patria. E’ la notte di capodanno e invece di festeggiare i due si confrontano, anche con toni accesi, sulle loro scelte di vita, le reciproche meschinità e debolezze.
Nell’adattamento firmato da Massimiliano Bruno, anche regista, e da Daniele Trombetti, i due espatriati sono romani veraci e la loro vicenda si dipana simbolicamente dagli inizi del secolo sino agli anni settanta. I loro nomi rimangono gli stessi, Cesare e Tonino, ma cambiano paesi e città in cui sono andati a vivere. Dapprima li troviamo a Buenos Aires, successivamente a New York nel 1922, poi nel ’49 nella Londra del dopoguerra, indi a Birmingham, dove rimarranno per un decennio, e infine a Monaco negli anni settanta. Cambiano i vestiti ma non il monolocale con i pochi arredi e i due letti gemelli, invece un’importante variazione rispetto al testo è la presenza in scena dalla moglie di Cesare che a Roma legge le sue lettere, scritte in parte però da Tonino, essendo lui semianalfabeta. I capodanni scandiscono le piccole cattiverie di entrambi, le feroci critiche di Cesare nei confronti di Tonino, considerato supponente, imbevuto di ideali a lui estranei e ingiustamente agiato. Tonino rinfaccia all’altro la sua grettezza e ignoranza, l’attaccamento al denaro, il vivere alle sue spalle pur avendo la possibilità di condividere le spese di vitto e alloggio. A soffrire più dell’atteggiamento razzista nei confronti degli italiani in tutte le loro destinazioni è Tonino che reagisce alle prese in giro e alle prevaricazioni inventando conquiste con donne seduttive ma soprattutto accumulando soldi per consentire a moglie e figli (che nelle lettere dimentica di menzionare) di abitare in case sempre più confortevoli, pensando prima o poi di tornare, cosa che in fondo sa non accadrà mai. Messo alle strette, Cesare inscena una finta impiccagione e pur di contraddire Tonino straccia una parte dei suoi risparmi gelosamente nascosti. Per non essere da meno, l’altro distrugge gli appunti del libro che stava scrivendo sul “perfetto schiavo” del capitalismo da lui odiato. E la notte di fine anno non può che finire con le lacrime del colto e sensibile Tonino e il rifugio nel sonno del gretto Cesare.
Un po’ spiazzati di primo acchito dalla parlata romana, dobbiamo ammettere che la scelta registica di Bruno ha una sua coerenza e conduce in porto l’operazione con mano sicura, rinunciando però a favore di intermezzi brillanti e quasi comici alle atmosfere claustrofobiche di minaccia, impalpabile tensione e mistero proprie del teatro dell’assurdo. Ottima la prova degli interpreti: Andrea Venditti è Cesare, approfittatore, bugiardo, reazionario e legato ai valori tradizionali, dotato però della simpatia tipica di alcuni cialtroni; Marco Landola disegna un Tonino utopista, malinconico ma determinato nella sua fede politica, apparentemente cinico ma buono di cuore; accanto a loro Francesca Anna Bellucci è una moglie che avverte la mancanza dello sposo ma la sua indole pratica le fa apprezzare i vantaggi di una vita più dignitosa e confortevole. Visto al teatro OffOff di Roma, sorto da qualche anno nella bellissima via Giulia per iniziativa del suo direttore artistico Silvano Spada, anche autore e già direttore del festival di Todi. Questa sala da sempre accoglie la drammaturgia lgbtq+ e tra le proposte di questa fine stagione segnaliamo Spose-Le Nozze del secolo, scritto da Fabio Bussotti, diretto da Matteo Tarasco e interpretato da Marianella Bargili e Silvia Siravo, in programma sino al 30 aprile. Elisa e Marcela si sposano nella chiesa di San Jorge a La Coruna: niente di straordinario se pensiamo ai giorni nostri ma siamo nel 1901! Quello fu il primo matrimonio legale celebrato tra due persone dello stesso sesso sin dai tempi dell’Impero Romano mai annullato né dalla Chiesa né dal registro civile anche dopo più di un secolo. Fu grazie alla loro determinazione che le due donne, incuranti dei giudizi della pubblica opinione, riuscirono con un atto coraggioso e creativo a difendere la loro libertà e identità, aspirando solo al legittimo diritto di essere felici. E’ importante ricordare questo esempio in un momento in cui alcune conquiste in materia di diritti civili rischiano di essere messe in discussione.
Era il 2005 quando il cardinale tedesco Joseph Ratzinger veniva eletto al soglio pontificio col nome di Benedetto XVI e il 2013 quando diede clamorosamente le dimissioni. Al suo posto nel conclave il 13 marzo 2013 fu scelto il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio che prese il nome di Papa Francesco. Per nove anni la Chiesa ha dunque avuto un papa emerito e un papa ufficialmente in carica. Il loro primo incontro-scontro viene raccontato in I due papi, pièce del drammaturgo e sceneggiatore americano Anthony McCarten, portata anche sullo schermo dal regista Fernando Meirelles con la sceneggiatura dello stesso autore. All’inizio ascoltiamo la cronaca in radio del 2005 e subito dopo fa il suo ingresso papa Ratzinger che condivide la cena con suor Brigitta, tedesca come lui, devota ma assai diretta nel ricordargli di dedicare troppo tempo alla scrittura e alla teologia, trascurando i tanti problemi che affliggono la Chiesa: un passato di scandali con alcuni suoi predecessori che si concedevano figli e amanti, la cronica mancanza di vocazioni, i preti pedofili, l’anacronistica censura su gay e lesbiche (peraltro rappresentati in vaticano dalla cosiddetta “lobby gay”) e il divieto di accedere ai sacramenti per i divorziati. Lui
s’inquieta e i toni si alzano ma è l’ora della puntata del Commissario Rex in tv di cui è assiduo spettatore. La discussione si placa ma è proprio a Brigitta che fa il primo accenno all’intenzione di dimettersi, accolta dalla suora con incredulità e rigettata con forza. In una situazione analoga conosciamo Bergoglio: anche lui accanto a suor Sofia, ma in un povero quartiere di Buenos Aires: anche lui vuole dimettersi e andare in pensione per continuare senza vincoli il suo apostolato di carità e aiuto ai più deboli: intenzione avversata anche in questo caso. Bergoglio ha scritto al papa ma la sua richiesta di dimissioni non ha avuto riscontro. Da quest’ultimo arriva invece a sorpresa l’invito a presentarsi a Roma e la residenza di Castel Gandolfo è teatro della loro conoscenza diretta. Con il suo temperamento impulsivo e sanguigno, Bergoglio non fa sconti e non esita a passare all’attacco, elencando a Ratzinger le sue mancanze più gravi: il distacco sempre crescente di molti fedeli che non si ritrovano nell’immagine di una Chiesa lontana dagli ultimi, la copertura data agli scandali della pedofilia e gli oscuri maneggi della banca vaticana. Benedetto incassa e glissa sulla richiesta di dimissioni. I due si ritrovano dopo cena e l’atmosfera si fa più distesa e quasi amichevole: è tempo per il papa di confidare a Bergoglio la sua intenzione, rifiutandogli le dimissioni proprio perché pensa potrà (e auspica) che possa essere lui il suo successore, già arrivato secondo alla sua elezione. Tanta è la diversità tra loro ma tanta è la stima che Ratzinger ha nei suoi confronti, oltre alla sensazione che la Chiesa abbia bisogno di un papa con le sue caratteristiche. Il congedo avviene la mattina dopo nello splendore della Cappella Sistina ed è siglato da un abbraccio tra i due. Finale con la cronaca radiofonica del 2013 e il primo “buonasera” di Francesco alla folla in piazza San Pietro.
La scorrevole regia di Giancarlo Nicoletti si avvale di un bel testo, tradotto da Edoardo Erba, e di due eccellenti attori benissimo in parte: Giorgio Colangeli veste gli abiti bianchi di Benedetto, dogmatico, testardo ma anche ironico e Mariano Rigillo quelli cardinalizi di Francesco, veemente, rigoroso ma anche empatico; Anna Teresa Rossini è la severa Brigitta e Ira Fronten la dolce Sofia. Alla Sala Umberto di Roma sino al 30/4 poi al teatro Apollo di Crotone (5 maggio) e al Rendano di Cosenza (6/5).
a cura di Mario Cervio Gualersi