Tra le sale delle Scuderie del Quirinale di Roma è protagonista la città di Napoli con la mostra Napoli Ottocento, aperta fino al 16 di giugno, che celebra un lungo secolo di storia in cui la città partenopea ha suscitato e prodotto incredibili visioni, potenti pensieri che hanno pervaso arte, architettura, scienza, moda e costume. Gli, artisti provenienti da tutta Europa e dagli Stati Uniti, arrivavano per contemplare e dipingere le attrazioni di Pompei ed Ercolano, il mare, le montagne, le isole di Capri, Ischia e Procida, gli scenari della costa amalfitana e sorrentina, il folclore, la terra fangosa del Vesuvio, la vegetazione lussureggiante della Campania, lo splendore e il degrado, l’urbanistica e il pittoresco della vita napoletana che si mescolavano tutti in un costante abbaglio.
Una mostra classica per i soggetti, per l’allestimento che riproduce l’ambientazione e l’atmosfera e allo stesso tempo uno sguardo nuovo su Napoli quale centro di trasformazione del sentire italiano. Un’occasione tra l’altro per vedere autori e opere poco frequentati dalle mostre.
Il curatore della mostra, Sylvain Bellenger, conosce benissimo la città e questo si percepisce ad ogni sala; dal 2015 al 2023, infatti, è stato direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte.
L’esposizione è pertanto un’occasione imperdibile per veder dialogare i capolavori di Capodimonte con quelli, tra gli altri, del Musée d’Orsay e l’Orangerie, della National Gallery e della Tate di Londra. È sempre la voce di Sylvain Bellenger ad accompagnare il visitatore in un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio nell’audioguida gratuita, disponibile sulla app.
Nelle sale le opere, tra gli altri, di Ludwig Catel, William Turner, Thomas Jones, John Singer Sargent, molti esponenti della scuola di Posillipo, Portici e Resina, Anton van Pitloo, Giuseppe De Nittis, Ercole e Giacinto Gigante, con i loro paesaggi che furono, molto più che semplici vedute, immagini che invasero il mondo. A interpretare le storie e i sentimenti che serpeggiavano per la città Mariano Fortuny, i fratelli Palizzi e Domenico Morelli. E poi, quasi in maniera sorprendente, un francese la cui famiglia aveva radici napoletane, Edgar Degas, del quale sono esposte quasi tutte le opere che ha prodotto a Napoli. E ancora Achille d’Orsi, Antonio Mancini e Vincenzo Gemito, fino ad arrivare a Burri e Fontana.
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Con la fine del XVIII secolo l’ascesa al cratere del Vulcano, il Vesuvio, divenne simbolicamente il punto di arrivo del Grand Tour e l’espressione di un sentimento “nuovo”, il Sublime, suscitato dall’attrazione mista alla repulsione che divenne emblema dello Sturm und Drang tedesco. L’anticipazione dell’affermazione di questa visione del naturale è con William Hamilton, un diplomatico, collezionista e vulcanologo che salì sul vulcano ben 65 volte nella sua vita e che scrisse una serie di pubblicazioni sul tema delle eruzioni. Il concetto del Sublime legato all’orrido e allo spaventoso fu ripreso negli studi di Edmund Burke e dal filosofo Immanuel Kant nello scritto Sul sentimento del bello e del sublime.
In pittura è Pierre Jacques Volaire l’artista al quale, per primo, è associato il Vesuvio come tema pittorico, e l’esplosione di luce e colore accoglie il visitatore nella prima sala.
Gli scavi di Ercolano nel 1738 e quelli di Pompei nel 1748 rappresentarono una folgorazione per l’Europa tanto che un nuovo Vedutismo si impose. In mostra, tra le opere, è da segnalare La solfatara di Gonsalvo (Consalvo) Carelli del 1841 proveniente dal Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli, un esempio di paysage classique che tradisce ancora l’idealizzazione classica propria della Scuola di Posillipo.
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Nella terza sala, in effetti un percorso che si disegna come un continuum, scandito da campiture di colore, che ben ritmano il viaggio pittorico, la Rivoluzione en plein air. Prima di questo periodo la pittura di paesaggio era considerata un genere minore rispetto alla storia, al ritratto e alla natura morta. Fu a Napoli in particolare che questo soggetto divenne sempre più importante, grazie all’attenzione scientifica e all’osservazione realistica della natura, accompagnata da studi in merito, non più idealizzata o astratta.
Di forte impatto le opere di Ercole Gigante, influenzato dal fratello Giacinto, assiduo frequentatore dello studio di Anton Pitloo in via Chiaia, la Scuola di Posillipo appunto. Ercole divenne importante per il contrasto tra la luce fredda della luna e i toni caldi del sole e delle atmosfere diurne, anticipando lo spirito romantico, come si nota in Napoli da Sant’Antonio a Posillipo, opera del 1840.
Di tutt’altro genere ma di grande raffinatezza Lo studio del pittore a Napoli del 1827 circa di Massimo Taparelli d’Azeglio che evoca quanto disse Pierre Bonnard dei Musei, che le finestre sono l’opera più interessante.
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Al circolo di Pitloo appartiene anche Salvatore Fergola in mostra con Effetto d’aurora boreale del 1848.
Tra gli approfondimenti autoriali una sezione è dedicata a Filippo Palizzi che ritrae una realtà sempre più reale incarnando, a metà degli Anni Cinquanta dell’Ottocento, il ruolo di innovatore della pittura italiana. Scontento dell’accademia cercava il “vero”, il rovesciamento dell’ideale nel reale, seguendo le teorie estetiche di Francesco De Sanctis che alimenteranno nei napoletani le istanze civiche oltre la visione del paysage classique della stessa Scuola di Posillipo. Beneficiò dell’influenza e del fratello Giuseppe, che era già in Francia dove stava assorbendo le novità pittoriche, e si formò anche sulla tradizione dei Presepi napoletani di San Gregorio Armeno che in quel periodo davano da mangiare a molti artisti. L’abilità di questo pittore la si vede in particolare nell’opera di grande formato Dopo il diluvio del 1864.
Un altro focus è dedicato a Giuseppe De Nittis napoletano, pittore nato a Barletta nel 1846, trasferitosi poi a Napoli dove fu espulso per indisciplina dal Real Istituto delle Belle Arti, per entrare a far parte poi di un gruppo indipendente noto come Scuola di Resina o Portici vicino ai Macchiaioli toscani per l’approccio alla realtà; quindi si trasferì a Parigi dove rimase fino al 1884, anno della sua morte.
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A Napoli nello stesso gruppo anche Adriano Cecioni.
Ricostruisce il gusto dell’epoca la sezione su Pompei rinata protagonista delle collezioni che diede vita al cosiddetto gusto neopompeiano e poi neogreco che decretò la nascita dell’industria napoletana del souvenir, mentre a Firenze e Roma già esisteva. In mostra molte riproduzioni che finirono nelle collezioni di famiglie aristocratiche e alto borghesi come il vaso che illustra la Hydria con la battaglia di Isso del 1832 circa realizzata dalla Fabbrica di Biagio Giustiniani e figli in terracotta dipinta in nero lucido con scene policrome.
La grecità ritrovata è legata al mito del Paradiso perduto, un topos tipico dell’archeologia e della letteratura ed estetica tedesca, in primis in Goethe. In tal senso la Campania felix fu l’ultimo epigono di una visione panteistica come ad esempio nelle opere di John Singer Sargent, pittore fiorentino di ascendenza inglese che soggiornò a Napoli e Capri nell’estate del 1878 e che colse la vitalità solare dei luoghi e dei suoi abitanti come in Ragazze di Capri sulla terrazza.
L’ultima stazione del primo piano dell’esposizione è Aquarium Stazione Zoologica di Anton Dohrn, zoologo tedesco nella linea darwiniana, che dette vita a una cellula della cultura europea tra arte e scienza.
Orientalismo, Verismo, Spiritualismo rappresenta un capitolo che ancor più ci immerge nel gusto e nella visione di un’epoca, il fascino dell’altrove, spesso nutrito di mistificazioni alle quali dette sicuramente uno spunto l’apertura del canale di Suez nel 1869. Questa corrente annovera anche artisti di pregio come Domenico Morelli che, sebbene non lasciò mai l’Italia, spaziò in raffigurazioni orientali, spesso erotizzate, e lontane dall’aspetto filologico come nell’opera del 1898 circa, Mezza figura di arabo.
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Verismo, terra, mare, lavoro è l’altro volto di questo nuovo sguardo sul reale. A tal proposito è necessario ricordare che Napoli ha perso la battaglia politica per l’Unità d’Italia, diversamente da Torino, Firenze e poi Roma, ma ha vinto quella culturale portando un grande fermento in tutto il Meridione, dove l’humus soprattutto letterario era decisamente vivace. Tra l’altro Émile Zola, il protagonista del Naturalismo, nel 1894 scende a Napoli per incontrare Matilde Serao, autrice de Il Ventre di Napoli. Proprio l’aderenza alla realtà, in particolare al suo lato sociale disagiato, la scultura diventa centrale perché maggiormente aderente al vero, basti pensare al Pescatore di polpi del 1890, bronzo di Eduardo Rossi.
Ecco come cambia il Ritratto d’artista non più idealizzato, retorico ma presentato nella sua quotidianità come nel Busto di Domenico Morelli del 1873 di Vincenzo Gemito.
Sono gli anni della trasformazione della società e della nascita a Napoli di una Borghesia moderna, dopo la delusione dei moti del 1848, operosa e con un desiderio di affermazione che sfocia anche nel desiderio di essere ritratta, di imporsi come un riferimento, come si evince da alcune opere in mostra tra le quali Ricordi, opera del 1885-1886 del calabrese Achille Talarico, napoletano di adozione e noto ritrattista.
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Curiosa la sezione su Edgar Degas napoletano, periodo fecondo legato alla necessità della famiglia di lasciare la Francia per questioni di giustizia e presente alle Scuderie con Henri e Lucie Degas, zio e cugina dell’artista.
Una sala mette al centro il confronto da Vincenzo Gemito e Antonio Mancini, nati entrambi nel 1852, amici d’infanzia, educati nelle strade di Napoli e poi all’Accademia delle Belle Arit. Lo scultore e il pittore viaggiarono insieme a Parigi ma, una volta rientrati a Napoli si allontanarono per riconciliarsi solo in tarda età, dal 1920. Dove l’uno portò il Verismo e la ‘bruttezza’, l’altro offrì mirabili ritratti con una sperimentazione materica di grande raffinatezza e modernità come in Dama in rosso o ne Il saltimbanco.
Negli Anni Venti si assiste al trionfo della materia che chiude il cerchio del viaggio iniziato con le rocce laviche del Vesuvio, simbolo dell’irrequietezza e della contraddittorietà dell’anima che si ritrova nelle ultime opere esposte come nei tubetti spremuti direttamente sulla tela che rende quasi tridimensionale la pittura di Mancini o nelle sperimentazioni di Medardo Rosso con la Grande rieuse fino alle ceramiche di Lucio Fontana e i Cretti di Alberto Burri.
a cura di Ilaria Guidantoni