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Al Tecnopolo di Reggio Emilia, che ha sede nel Capannone 19 delle storiche ex Officine Meccaniche Reggiane, fino al prossimo 16 ottobre, Dario Tarasconi e Andrea Scazza presentano Res Derelictae – La fabbrica produce ancora?, a cura di Francesca Baboni e Stefano Taddei, un progetto che parte dall’idea di archeologia industriale per offrire un respiro squisitamente artistico.
La mostra si propone di portare all’attenzione del pubblico l’estrema contemporaneità di quella che è stata una delle realtà industriali più importanti in Italia. Luogo di produzione e di socialità, di degrado e di abbandono poi, di innovazione e cultura, la fabbrica è ancora oggi capace di arricchire l’immaginario di una città che osserva se stessa in divenire, riconoscendo la bellezza nell’imperfezione. La mostra, evento collaterale a Un tocco di classe. L’occupazione delle Reggiane 1950-51, nel Capannone 18, è realizzata in collaborazione con CGIL Camera del Lavoro Territoriale di Reggio Emilia, STU Reggiane Spa e Parco Innovazione Reggiane, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Reggio Emilia e della Regione Emilia-Romagna.
Clicca qui sopra per vedere il video con gli artisti Dario Tarasconi e Andrea Scazza,
che raccontano il progetto
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Il progetto di Dario Tarasconi e Andrea Scazza nasce da un ritrovamento fortuito avvenuto nel 2019 in uno dei capannoni abbandonati di via Agosti: 180 fotografie recuperate da un seminterrato normalmente non agibile a causa delle infiltrazioni d’acqua. Riproduzioni fotografiche delle Officine Reggiane e delle attività che si svolgevano al loro interno e nei cantieri esterni, sottoposte dall’umidità ad un processo di deterioramento che le ha trasformate in composizioni astratte.
Nella quasi totalità delle immagini si sono sorprendentemente salvate le figure umane, come se il tempo non riuscisse a scalfirne la presenza. “Numerosi gli interrogativi che si vogliono sollevare con l’esposizione delle immagini ritrovate e consunte dal tempo”, spiegano Tarasconi e Scazza, “primo tra tutti: la fabbrica ha veramente smesso di produrre? E di conseguenza, quali sono i prodotti attuali? Cosa li identifica come belli/desiderabili? E ancora, può esistere un capitale (fotografico, artistico, umano) da scoprire in un luogo abbandonato che ha smesso di produrre utili d’impresa? Cos’è che vediamo/trascuriamo quando oggi sentiamo parlare di Reggiane negli episodi di cronaca? Cosa si cela sotto al senso comune del “degrado” che ricopre le molteplici narrazioni possibili come uno strato d’acqua stagnante che impedisce di vedere oltre? Esistono forse altre narrazioni possibili?”
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Questa inedita iconografia fotografica Jolie Laide (marcia e sublime), sospesa tra l’onirico e il surreale, è capace di strappare all’oblio i frammenti della memoria di un luogo simbolo della storia del ‘900 e di restituirceli con una potenza estetica e visiva sconvolgente. La fabbrica ha permesso l’incontro di due anime artistiche apparentemente lontane, ma entrambe accomunate dall’interesse di “scavare sul fondo” e arrivare alla radice delle cose.
Il titolo della mostra Res Derelictae allude all’istituto giuridico del diritto romano secondo il quale la proprietà dei beni abbandonati si acquisisce con la loro occupazione. Entrando si è avvolti dalla suggestione di un’area industriale molto estesa dove si respira la stratificazione della storia ma anche lo slancio verso il futuro grazie al nuovo concept che suggerisce una produzione dove l’attività manuale si intreccia e si sublima in un’attività di ricerca. L’arte nasce così dal recupero della storia e si trasfigura nel divenire della stessa la cui memoria cambia nel tempo come suggeriscono le foto rinvenute.
L’esposizione, nello specifico, si compone di una cinquantina di fotografie, accuratamente selezionate e stampate su forex, posizionate lungo il perimetro del capannone, su un doppio livello di volume, secondo un percorso che valorizza il capitale estetico che il luogo ha prodotto. Nella parte interna è, inoltre, installato un apparato video e audio per riprodurre alcuni contenuti multimediali relativi alla realizzazione del progetto e al taglio interpretativo dato alle immagini.
“Ora gli oggetti ritrovati”, dice Stefano Taddei, “hanno avuto una fase di ancoraggio al presente grazie all’operare degli autori che li hanno preservati dall’oblio. Tali immagini brulicano di vitalità, paiono in continua metamorfosi e movimento. In alcune immagini si trovano anche il nome dell’operatore che ha compiuto gli scatti e le referenze scritte dei soggetti immortalati. Il tempo ha trasformato queste immagini e le ha riportate nella contemporaneità in modo peculiare”.
“La casualità penetra dunque nell’immagine”, aggiunge Francesca Baboni, “divenendo essa stessa metodo e procedimento artistico, mentre l’acqua e il tempo agiscono sugli sfondi ambientali esattamente come il pennello di un pittore. Poiché è questo che si è voluto azzardare: esporre fotografie come fossero quadri di astrazione con il paradosso di non avere eseguito alcun intervento pittorico. Nel momento in cui si riconoscono i soggetti umani e le cose presenti attorno a loro, il movimento magmatico delle muffe e delle escoriazioni s’insinua nel contesto capovolgendone il significato e invadendo la raffigurazione, sia d’interno che di esterno, come se agisse con la stessa gestualità espressiva insita nella realizzazione di un’opera astratta”.
Il progetto restituisce così uno spazio che dagli anni Quaranta ha attraversato molte fasi alla città come parte integrante di essa diventando uno stimolo per la riqualificazione dell’area con una testimonianza storica stratificata che ha respirato già l’arte attraverso il periodo della street art, legata ad un’occupazione abusiva certo dell’insediamento ma certamente creativa e vitale rispetto allo scheletro che restava di un sito produttivo. Le immagini di oggi diventano la metafora della centralità del capitale umano rispetto al lavoro e grazie anche ad una serie di iniziative e incontri paralleli, il tema del lavoro, della dimensione creativa, sociale e psicologico saranno sviluppati creando un luogo di incontro e di scambio di idee.
Chi è Dario Tarasconi
Nato a Montecchio Emilia nel 1988, frequenta il Liceo delle Scienze Sociali presso l’Istituto “Matilde di Canossa” di Reggio Emilia, successivamente la Facoltà di Scienze della Cultura ed Epistemologia delle Scienze Umane presso il dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Il suo percorso artistico comincia nella seconda metà degli anni 2000. Espone presso diversi spazi della sua città e nel 2017 partecipa ad una collettiva nel Palazzo Bentivoglio di Gualtieri (RE), insieme ad altri artisti e a Mario Pavesi. Nel 2019 viene scelto tra gli artisti emergenti italiani dalla galleria Orler per il progetto Affordable Art Point. Vive e lavora a Reggio Emilia.
Chi è Andrea Scazza
Nato a Reggio Emilia nel 1985, laureato in Scienze Politiche all’ateneo felsineo, si specializza in Conflict Resolution presso il dipartimento di Peace Studies alla Bradford University. Dai primi anni 2000 inizia a dipingere come writer, lavorando dal 2012 alle ex Officine Reggiane insieme ad altri writers e artisti di strada. Partecipa all’organizzazione di jam pittoriche in luoghi vari della città di Reggio Emilia e presso le ex Officine Reggiane, tra cui la “Jam R60” in occasione dell’anniversario dell’occupazione della fabbrica. Collabora all’ideazione e alla realizzazione di progetti educativi mediante l’uso di pittura e graffiti. Vive e lavora a Reggio Emilia.
a cura di Ilaria Guidantoni