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In scena fino al 29 maggio al Teatro Franco Parenti di Milano, Fabrizio Gifuni ricorda, dopo quella di Aldo Moro, la figura e l’opera di Pier Paolo Pasolini con Il male dei ricci, mentre Fabrizio Arcuri con Filippo Nigro ci svelano le cose per cui vale la pena vivere in Every Brilliant Thing.
Alla figura di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) Fabrizio Gifuni (attore che si divide tra teatro e cinema con eguale talento e successo) aveva dedicato nel 2004 il monologo ‘Na specie de cadavere lunghissimo, in cui dava forma a un progetto ambizioso: trovare il nodo poetico che ha unito il poeta, scrittore e regista ai suoi assassini attraverso i suoi testi più polemici e politici insieme al poema Il pecora di Giorgio Somalvico. Tra i materiali usati per la drammaturgia (curata dallo stesso Gifuni mentre la regia era di Giuseppe Bertolucci) c’erano, tra gli altri, Scritti corsari, Lettere luterane, La seconda forma de La meglio gioventù e Siamo tutti in pericolo, l’intervista rilasciata a Furio Colombo poche ore prima del suo assassinio.
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“Quando alcuni anni fa”, racconta l’attore, “iniziavo a pensare all’idea di uno spettacolo su Pasolini, è in termine di opposizione che il mio istinto si muoveva: padre e figlio, natura e opera d’arte, vittima e carnefice, violenza e mitezza, dottor Jekill e Mr Hyde, erano solo alcune delle antinomie che si affacciavano alla mia mente. Altrettanto forte era l’urgenza politica da rischiare di travolgere tutto. C’era il desiderio di raccontare la tragedia pubblica e privata di un poeta che aveva visto scomparire in soli tre lustri il solo mondo in cui voleva riconoscersi. Era il grido lacerante e disperato di un uomo che urlava nel deserto contro l’immoralità e la cecità del vecchio potere che stava aprendo la strada all’avvento di un Nuovo Potere”.
Vent’anni dopo Gifuni ritorna su Pasolini con Il male dei ricci, pochi mesi dopo aver raccontato il calvario di Aldo Moro in un altro one man show dal titolo Con il vostro irridente silenzio, basato sulle lettere scritte dal presidente della Democrazia Cristiana nei 55 giorni della sua prigionia. All’inizio del primo l’attore si sofferma
sulle analogie tra questi due ingombranti fantasmi (non a caso i due lavori fanno parte di un dittico chiamato I fantasmi della nostra storia): entrambi vittime di morte violenta, non hanno avuto una degna sepoltura nell’immaginario italiano, hanno vissuto in disperata solitudine gli ultimi mesi di vita e hanno chiaramente palesato i pericoli a cui il Paese sarebbe andato incontro in un futuro non lontano, Moro in un biglietto a Tina Anselmi poche ore prima del rapimento e Pasolini nell’intervista già citata, oltre alla chiara percezione del pericolo che correvano a livello personale.
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Sono due corpi che segnano una linea di confine tra quanto accaduto in Italia fino al termine degli anni settanta e la rimozione, la scelta di non ricordare che hanno poi fatto seguito. E’ singolare vederli insieme, seduti uno accanto all’altro, in occasione della presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia di due film di Pasolini, Edipo re e Il vangelo secondo Matteo. A proposito del secondo, si potrebbe dire che entrambi hanno patito una fine cristologica, con la vera madre del regista nei panni di Maria a piangere sotto la croce la morte del figlio.
Se nella pièce dedicata a Moro (ricordiamo che Gifuni ha interpretato lo statista anche nel film Esterno notte, diretto da Marco Bellocchio) il fulcro erano le missive inviate alla famiglia e ai colleghi di partito, nel Male dei ricci il perno ruota sulla lettura drammatizzata di alcuni estratti da Ragazzi di vita, il romanzo del 1965 scritto da Pasolini, ambientato nelle borgate romane negli anni seguiti alla guerra. Il protagonista è appunto il Riccetto, all’inizio ragazzino e poi adolescente diciottenne, che seguiamo nelle sue avventure insieme ai sodali Caciotta, Bagalone, Amerigo, il Lenzetta e Marcello. Insieme a loro, lo vediamo impegnato a rubacchiare, truffare il prossimo e spendere il frutto del malaffare in vino, cibo e prostitute, salvo poi venire spesso derubato a sua volta del gruzzolo faticosamente racimolato. Sono pagine in cui il dialetto romano, spesso greve e senza risparmio di termini crudi, si alterna a momenti di grande poesia nelle descrizioni della natura già contaminata dagli scarichi delle fabbriche (vedi il Tevere e le sue sponde) o quelle degli interni domestici o delle osterie. Gifuni con maestria dà voce a tutti i personaggi, rimarcandone violenza, generosità ed egoismi, lati tragici, comici e grotteschi, giocando anche sulla fisicità che lo vede muoversi in una scena vuota con sole tre sedie ai due lati del palcoscenico. “Nel romanzo”, continua l’attore, “c’è anche la privatissima tragedia di chi, in virtù di quella catastrofe politica e antropologica che vedeva abbattersi sull’Italia, non riconosceva più i corpi dei ragazzi, i suoi amati Riccetti, che sembravano trasformarsi sotto i suoi occhi da simpatici malandrini a spietati assassini, cambiando maschera: dall’innocenza al crimine”. Responsabile di questa mutazione è quel Nuovo Potere, senza volto, più violento e totalitario, identificato da Pasolini nella società dei consumi che si sviluppa e consolida negli anni sessanta: sono cambiati antropologicamente gli abitanti di Roma e il regista non troverebbe più gli interpreti ideali per girare un film come Accattone. A simboleggiare quanto questa mutazione incida sulla personalità e sul carattere, se all’inizio del romanzo il Riccetto, ancora ragazzino, dalla barca si gettava nel fiume per salvare una rondine, alla fine, ormai uomo, non si tuffa in aiuto di un amico, il minuto Genesio, che sta annegando nel Tevere, ma assiste alla disgrazia dalla riva e, non visto dai fratelli del poveretto, si allontana alla chetichella. Il male dei ricci, produzione Cadmo, visto al Teatro Franco Parenti di Milano, verrà ripreso nella prossima stagione.
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Fa parte dell’ultima generazione di drammaturghi inglesi che stanno incontrando il favore anche del nostro pubblico, come Alice Birch (suo il pluripremiato Anatomia di un suicidio) o Alexander Zeldin (The Confessions visto al recente Festival Presente Indicativo del Piccolo Teatro): Duncan MacMillan (classe 1980) lo conoscevamo già per Lungs (Polmoni) ma in patria è famoso anche per l’adattamento di 1984 di George Orwell, per People Places and Things e per Every Brilliant Thing. Quest’ultimo, scritto nel 2013 insieme a Johnny Donahoe che ne è stato anche il primo interprete al Festival di Edimburgo nello stesso anno, viene ora messo in scena dal regista Fabrizio Arcuri con Filippo Nigro anche protagonista e solo in scena. Si tratta di un format originale che prevede l’intervento e il contributo degli spettatori chiamati a interagire con l’attore o da seduti al loro posto oppure accanto a lui alla ribalta.
La trama della pièce si sviluppa intorno alle vicende di un giovane uomo (forse legate alla biografia dell’autore) la cui vita si snoda in parallelo con la compilazione di una lista delle cose che dapprima gli sembrano semplicemente belle, ma poi diventano quelle per cui vale la pena vivere.
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Se da ragazzino le priorità vanno al gelato, la cioccolata, i cartoni, le sorprese e il colore giallo, man mano che passano gli anni le voci della lista aumentano considerevolmente facendosi più articolate.
A questa pratica s’intreccia il suo vissuto: in una sorta di seduta di autocoscienza o confessione laica, veniamo messi a conoscenza del controverso rapporto con la madre che, ancora lui bambino, tenta invano il suicidio che invece molti anni più tardi le riuscirà, scegliendo di morire a causa dei gas di scarico della sua auto. Il primo episodio, per il ragazzino comprensibilmente traumatico (oltre al continuo rifiuto della donna di leggere la lista che più volte lui le propone) viene affrontato nei colloqui con la psicologa della scuola che si relaziona a lui attraverso la voce di Fuffy, un cagnolino immaginario. E’ complesso anche il rapporto con il padre: uomo austero e di poche parole che ha difficoltà a mostrare i sentimenti. Tappa importante della vita è l’approdo all’università dove, pur non frequentando i colleghi e preferendo immergersi nella lettura, proprio in biblioteca incontra Sem con la quale, complice uno scambio di libri da leggere, scatta un’immediata, reciproca simpatia che sfocia in un fidanzamento e poi nelle nozze con la benedizione dei genitori di lui. Trasferitasi a Londra, la coppia sembra avere tutti i requisiti per condurre un’esistenza serena, ma nell’uomo avanza lo spettro della depressione che lo fa isolare e rinchiudersi in se stesso sempre di più, a tal punto che Sem decide di lasciarlo. Risalire la china non sarà facile ma l’obiettivo di arrivare alla conclusione della lista totalizzando l’incredibile cifra di un milione sarà un incentivo determinante.
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Si è già detto dell’interazione con il pubblico: a un congruo numero di spettatori prima dello spettacolo lo stesso Nigro e un collaboratore distribuiscono cartoncini su ognuno dei quali è indicato un numero e una voce della lista, oltre ad alcuni libri e persino una bevanda. Quando verrà chiamato quel numero, si dovrà immediatamente palesarne il contenuto. Più complesso è il compito di altri spettatori, chiamati a interpretare in scena vari ruoli: il primo è quello del veterinario che deve sopprimere Sherlock Holmes, il cane del ragazzino nel suo primo incontro con la morte. Tocca poi al padre che prima lo conduce all’ospedale dove è ricoverata la mamma dopo il tentato suicidio e poi verrà incaricato di pronunciare il discorso al ricevimento di nozze; molto spazio è ovviamente riservato a Sem, la compagna, nelle varie fasi del loro rapporto. C’è il professore universitario che raccomandava ai suoi studenti di leggere I dolori del giovane Werther di Goethe che alla sua pubblicazione nel 1774 in Germania aveva fatto salire i suicidi del 12% e infine la psicologa della scuola, prima in servizio e poi, ormai anziana, in pensione, che lui torna a contattare dopo la separazione dalla moglie.
“La nostra messa in scena”, sottolinea Nigro, “rispetta fedelmente il testo originale senza alterare luoghi e dialoghi e il tema della depressione risuona ancora oggi per la sua universalità. In regia con Fabrizio Arcuri abbiamo creato uno spettacolo che varia ogni sera e che non è mai lo stesso, in base alla risposta del pubblico e alla temperatura emotiva in sala, lasciando che il testo si sveli replica dopo replica. All’inizio lo immaginavamo per spazi raccolti ma poi, nelle 90 piazze raggiunte sino ad oggi, abbiamo riempito platee anche di 900 posti, ottenendo la stessa risposta. Ogni sera insieme agli spettatori viviamo momenti riflessivi, buffi e inattesi, proprio come nella vita reale. Il pubblico diventa parte della storia contribuendo a dare vita ai ricordi del protagonista, un bambino che fornisce alla madre un inventario di cose per le quali vale la pena vivere”.
Nella replica a cui abbiamo assistito al Piccolo Teatro l’alchimia tra gli spettatori chiamati a fare da attori e Filippo Nigro ha funzionato in modo assai egregio e con risultati talvolta esilaranti. Lui ha usato la grande esperienza maturata in teatro (lodevolmente votato alla drammaturgia contemporanea), al cinema e in televisione (chi non lo ricorda nel ruolo di Cinaglia nella serie Suburra?) per dare alla pièce dinamismo, flessibilità e totale empatia con gli spettatori diventati suoi complici in un gioco che nelle pieghe nasconde amarezza e un invito all’introspezione che però non spengono il positivo anelito alla vita, simboleggiato dalla milionesima voce della lista: la scelta del vinile preferito, il crepitio della puntina del giradischi che all’inizio graffia un po’ sui solchi e la musica che si diffonde nell’aria. Benissimo tradotto da Michele Panella e prodotto dal Centro Servizi e Spettacoli del Friuli Venezia Giulia con Sardegna Teatro, Every Brilliant Thing continuerà prossimamente la già lunga tournée.
a cura di Mario Cervio Gualersi