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Sullo sfondo il teatro italiano dalle «cantine» romane a oggi
E’ stato presentato a Roma martedì 10 dicembre 2019 al teatro Valle, il libro Il magico mondo di Giancarlo Sepe di Silvana Matarazzo per le Edizioni ZONA con Giancarlo Sepe, Monica Guerritore, Tommaso Le Pera, Mario Sesti, Marcantonio Lucidi e il giornalista Antonio Audino. Una lunga conversazione, in stile giornalistico, per raccontare il percorso di un regista, il sapore del teatro italiano, soprattutto nell’esperienza delle ‘cantine’ romane e l’intreccio fra teatro e vita, l’eco della piazza nelle rappresentazioni, il dialogo e talora lo scontro con la politica e la cultura.
Abbiamo avvicinato l’autrice, napoletana, romana di adozione, che ha iniziato a occuparsi di teatro come attrice frequentando il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, per farci raccontare la nascita e il contenuto del libro. Laureata in Lettere, giornalista professionista, Silvana Matarazzo ha collaborato con la cattedra di storia della letteratura moderna e contemporanea dell’Università di Roma Tre. Cura e conduce rubriche di spettacolo e speciali sul teatro per RadioRai, dove lavora. Ha pubblicato i volumi Teatri a Roma tra storia e contemporaneità e per ZONA La parola e la scena.
Una conversazione con uno dei registi più noti e poliedrici del teatro italiano, la cui attività abbraccia un lungo periodo storico e culturale del nostro Paese. Un racconto in “presa diretta” che parte dalla sperimentazione degli anni Sessanta nelle cosiddette cantine per arrivare all’ufficialità dei grandi teatri, luoghi in cui sono maturate intense collaborazioni con alcuni prestigiosi interpreti della scena italiana.
«C’è nel modo di lavorare di Giancarlo Sepe una ricerca della qualità, che lo porta a inventare delle scene stupefacenti per i suoi spettacoli. D’altro canto è davvero miracoloso quello che lui riesce a fare nel suo teatrino, La Comunità, creando degli spazi che non esistono grazie all’uso delle luci, sfondando pareti, allargando o restringendo il campo visivo e realizzando dei primi piani suggestivi come si fa al cinema…». Sono queste le parole del prologo di Umberto Orsini che ha sottolineat di esser stato da sempre colpito dal suo modo di costruire uno spettacolo, «quell’apparente superficialità che riesce a toccare, in zone che non avresti mai sospettato, una profondità incredibile. Per questo il teatro di Sepe ti destabilizza, per il miscuglio sapiente di leggerezza e spessore, di divertimento e rigore, che lui riesce ad amalgamare secondo uno stile tutto suo, inconfondibile, che lo rende un artista unico nel nostro panorama teatrale.»
GiancarloSepe©fotoTommasoLePera.jpg
Com’è nato il progetto di un libro monografico sul regista Giancarlo Sepe, al di là della sua statura?
“L’idea mi è venuta frequentando i suoi palcoscenici che mi hanno sempre affascinata per il modo di costruire lo spettacolo, attraverso un assemblaggio di diverse forme espressive, dalla musica che Sepe definisce un copione parallelo, all’uso delle luci, dalle scene e al ritmo. In particolare ho avuto l’occasione di vedere Accademia Ackermann nel ’93 che riprendeva lo spettacolo presentato al Festival di Spoleto nel 1978; quindi Favole nel 2001 a Roma proprio nel suo Teatro, uno spettacolo ipnotico, per l’approccio emozionale di questo regista che è lo spunto dal quale parte anche nel caso di un testo, che comunque è sempre rielaborato. Arriviamo così intorno al 2015 quando lo spettacolo I Dublinesi, in inglese, a Spoleto ha sollevato in me l’urgenza di scrivere su questo regista”.
silvana matarazzo
Cosa ti ha colpito in particolare di questo spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di Oscar Wilde?
“L’uso della parola per il suono tanto che da anni Sepe ha cominciato a realizzare i propri spettacoli in altre lingue e la capacità di cogliere il senso dell’ossimoro incarnato dal popolo di Dublino che è dolente, malinconico e, nello stesso tempo, esprime la gioia di vivere in molte manifestazioni quali in particolare la danza e il canto che sono elementi molto importanti per questo regista.”
Da cosa sei partita?
“Avevo già realizzato un’intervista per un altro libro dedicato ai teatri di Roma, un capitolo del quale era riservato appunto a Sepe e all’avanguardia teatrale rappresentata dalle cosiddette “cantine” romane, un teatro fuori dai grandi circuiti, almeno inizialmente”.
Cosa intendi mettere in evidenza il volume?
“La figura di Sepe dietro le quinte e il doppio binario lungo il quale ha sviluppato la propria arte, diviso tra il suo teatro La Comunità, nel rione di Trastevere, fondato nel 1972 e i grandi teatri, per i quali ha lavorato senza rinunciare alla sua visione.”
Quali sono a tuo parere gli elementi caratterizzanti, ai quali hai in parte già accennato?
“La presenza importante della musica, mai un semplice sottofondo; il montaggio di alcune scene con una scansione cinematografica; l’uso delle luci; la presenza non secondaria del canto; l’uso della parola come suono e la sincronia tra parola, recitazione e movimento degli attori”.
Come si sviluppa il libro?
“Il libro vuole ricostruire il cammino di un artista intrecciandolo a quello della scena culturale italiana partendo dagli Anni Sessanta per arrivare ad oggi, un percorso importante dato che è praticamente l’unico teatro ancora attivo di quella stagione e con quelle modalità. Il punto di partenza del racconto è la formazione di Sepe e la nascita della sua vocazione teatrale per poi seguirne grosso modo seguendo l’ordine cronologico, le tappe fondamentali della carriera per arrivare a capire lo sviluppo e la costruzione del suo teatro.”
Il progetto ha un messaggio e un pubblico al quale si rivolge idealmente?
“Non ho pensato ad un pubblico anche se certamente si indirizza al mondo del teatro, agli appassionati come anche a ‘curiosi’ della cultura e della storia italiana perché ho cercato di restituire il sapore di quegli anni e il rapporto con la società e la politica, l’eco della piazza nel teatro, essendo specchio di vita”, anche quando guarda a testi del passato, lontano, che non a caso vengono interpretati in modo diverso nel tempo.
Qual è il tuo punto di vista, al di là dell’apprezzamento e del coinvolgimento emotivo per la regia di Sepe?
“Il taglio è indubbiamente giornalistico, di approfondimento, ma non nell’ottica storica o della critica teatrale e la scelta della forma dell’intervista è stata dettata dal desiderio di restituire intimità e vivacità al personaggio e al mondo del teatro, in un certo senso di far rivivere gli spettacoli, le atmosfere”.
Il libro ha un importante corredo fotografico, raffinato, frutto di quali scelte?
“E’ stata una mia indicazione perché parlare di teatro senza mostrare delle immagini mi sembrava astratto e poco coinvolgente così ho chiesto le immagini all’archivio del teatro La Comunità, rintracciando i vari autori. In particolare è stato prezioso il contributo di Tommaso La Pera, importante fotografo teatrale. Per la copertina è stata scelta una scena dello spettacolo Il gabbiano (à ma mère), liberamente ispirato a Cechov, della scorsa primavera, di e con la regia di Giancarlo Sepe, foto di Mario Borghesi, perché a mio parere rappresenta bene la costruzione del suo teatro dal punto di vista dell’azione scenica”.
a cura di Ilaria Guidantoni
