“Il focus del mio lavoro, ci ha raccontato di recente Sergio Racanati, giovane artista di Bisceglie, classe 1982, che abbiamo incontrato nelle Vecchie Segherie della città – oggi suggestiva Libreria Mondadori – è l’interesse per la storia sociale dell’uomo e il suo legame con la città, l’ambiente politico e architettonico che lo circonda. “Lavoro sull’elemento minoritario, spesso dimenticato, perché penso che esista una relazione stretta tra i comportamenti politici e la storia dell’architettura” sostiene Racanati. “Mi interessa il rapporto tra la memoria individuale e collettiva nella storia contingente”.
Un artista, 36enne, con la voglia di sperimentare e di sperimentarsi: è in partenza per Palermo dove inaugurerà la sua personale il 5 ottobre prossimo e la prossima tappa dovrebbe essere – la notizia è ancora ufficiosa – Buenos Aires con il suo ultimo progetto “DEBRIS/DETRITI”, la cui seconda tappa dovrebbe essere realizzata in Argentina, nell’ambito del bando “Officine Italiane”; la terza a Matera presso la Fondazione SoutHeritage. Un’occasione che non capita tutti i giorni.
Dopo gli studi a Milano ed una ricerca da globe trotter, pone una grande fiducia nel suo territorio d’origine, nel quale attualmente: Bisceglie (BT), zona che ha conosciuto e sta vivendo una fase di grande vivacità culturale e di sperimentazione assieme a tutta la provincia. Ma Racanati è sempre proiettato in un viaggio di sola andata, perché ogni suo ritorno è una tappa per ripartire.
E’ appena tornato da un altro appuntamento internazionale, anche se questa volta in Italia, a Palermo, prima tappa del progetto di cui ci hai parlato ed ultimo scenario per la biennale nomade “Manifesta 12”, dov’è stato in residenza artistica presso “spazio Y”. Gli abbiamo chiesto cosa ha realizzato per l’occasione.
“Un‘installazione ambientale concepita come un set temporaneo, dislocato nelle sale di Palazzo Savona, che scardina l’idea tradizionale di narrazione lineare. Con la stessa attenzione ho realizzato la trilogia filmica – in mostra a Palermo solo il primo capitolo – in cui gli elementi prelevati dal reale divengono strumenti per analizzare il contesto culturale, sociale e politico della città siciliana. Alla base di tutta la progettualità la mia riflessione sulla grande questione legata a “i Sud” che ho focalizzato nella scrittura, nel giugno 2018, del Manifesto “Perché ho deciso di vivere a Sud”. Il progetto DEBRIS/DETRITI è sostenuto dalla Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea di Matera e dal progetto Puglia Circuito del Contemporaneo, diretto da Giusy Caroppo, nel quale gli elementi prelevati dal reale divengono strumenti per analizzare il contesto culturale, sociale e politico della città di Palermo, inserendo questa riflessione all’interno del Manifesto stesso.”
Mi è sembrato inaspettato il risultato e forse non si tratta solo della tua modestia, ma è evidente che il tuo lavoro sparigli le carte. Ci racconti com’è andata?
“La residenza mi ha dato modo di indagare il contesto siciliano e in particolare quello di Palermo. Ho appena inaugurato la mostra personale in cui è confluita la ricerca svolta durante la residenza. E’ stato affascinate girare per Palermo in bicicletta scoprendo anfratti poco ‘cartolinizzabili’ e ancora non folklorizzati, aggirarsi nel centro storico cosi come nella più lontana periferia, nelle ore cocenti di sole e sotto i raggi argentei della luna, con una strumentazione tecnologica a portata di mano è stata una performance in cui i gli agenti si susseguivano in modo armonicamente distorto e frammentato restituendo il senso più profondo di questo bellissimo coacervo fluido di identità. La trilogia DEBRIS/DETRITI spero possano essere un allucinato “Italianische Reise” non da straniero ma da stranito.”
Raccontaci in sintesi il progetto “DEBRIS/DETRITI” e che cosa secondo te ha convinto i curatori della tua proposta? “A convincere i curatori e i partner di produzione – aspetto molto importante per la tipologia di progettualità che metto in atto e che toccano le questioni afferenti la sfera pubblica – credo sia stato tutto l’apparato teorico e pratico con cui ho strutturato il progetto che non si limita solamente a una sola tappa (o mostra o residenza o presentazione) ma è un vero work in progress in cui convergeranno esperienze multiple e linguaggi differenti. Il progetto si arricchirà e incontrerà, nell’ottica di un vero e proprio dialogo aperto, istituzioni culturali ed artistiche differenti, soggettività politiche diverse e territorialità marginali evidenziando le criticità attuali in scala locale/globale.”
Un altro grande successo è la chiamata a New York della quale mi sembri a ragione molto fiero.
Al di là delle opere e della loro collocazione – tra l’altro il tuo Resilient è stato selezionato e presentato per la Biennale 7 di Berlino nella sezione PRE-OCCUPIED BERLIN – un ruolo importante per te è dato dalla “vita d’artista”, intesa non come romantico cliché ma come laboratorio attraverso le residenze d’artista.
Il risultato conta e il progetto filmico realizzato in Himalaya a 4.500 metri d’altezza durante la residenza artistica Kyta – curata da Shazeb Sherif – è stato presentato all’Asia Film Festival a Barcellona su invito di Menene Grass Balaugher, direttrice del festival, nella sezione Discoveries: un bel traguardo.
“La creazione del film avvenuta nella Valle di Parvati, nel villaggio di Kalga, ci ha raccontato l’artista , si ispira nel titolo al
sostantivo femminile sanscrito līlā che allude a “gioco”, “distrazione”, “passatempo”, “grazia”, “fascino” ma anche “mera apparenza”, “simulazione”. Secondo la tradizione induista sottintende la spontanea manifestazione dell’universo ed il suo dissolvimento.
līlā è rivolto alla dimensione dello spazio e del tempo sociale, ai sistemi di potere e di persuasione che le forme del visibile o dell’invisibile esercitano nel quotidiano. Il film, inoltre, esplora le narrative insite nella comunità e auspica un possibile modello di fruizione del territorio, producendo un corto circuito tra localismo e (post)globalismo. Il film è composto da azioni in dissoluzione, discrezione, dilatazione e dissolvenza.”
Ci vuoi raccontare qualcosa riguardo le potenzialità delle tue progettualità, immerse in dispositivi, oserei dire, ‘collettivi’? “Il valore antropologico del patrimonio è racchiuso all’interno delle singole soggettività o come preferisco chiamarlo biocapitale. Attraverso una sorta di etnografia contemporanea svolgo le mie indagini in diversi territori incontrando e includendo, nelle diverse fasi di progetto, le sue diverse comunità. Credo sia un aspetto importante della mia militanza politico-culturale in cui metto in pratica strategie di coesione sociale per configurare nuovi possibili modelli di vita, a volte anche sovversivi rispetto alle logiche consolidate dagli aspetti normativi.”
Deformazione professionale da giornalista: sei alla vigilia di una partenza e quindi il tuo futuro è lì. Ma hai già in mente il prossimo viaggio perché di solito per i viaggiatori funziona così, come diceva Pessoa “Non sbarchiamo mai da noi stessi”.
La tua terra non è però solo una tappa per il cambio valige, è anche un laboratorio importante e un luogo di lavoro come nel caso di Vlen, a cura di Giusy Caroppo; la performance, realizzata nell’atrio della scuola primaria “E. De Amicis”, a Bisceglie, città natale cui sei molto legato. Questo vale anche per l’altro progetto recente, OXXL, progetto realizzato durante la residenza artistica presso il Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, sempre in provincia di Bari.
“Ho definito entrambi i progetti ‘il ritratto di un percorso esistenziale, la fotografia di una vita intera, percorsa da una moltitudine che raccoglie sotto la lente di un caleidoscopio soggettività multiple, simmetriche e irregolari che vivono all’interno dello sciame inquieto del quotidiano. Ma sono profondamente legato anche al progetto RESILIENT, operazione corale che ho attivato con il collettivo le Macerie Baracche Ribelli, curato da Mariapaola Spinelli e successivamente selezionato per la sezione Pre-Occupied alla Biennale di Berlino 7, curata da Jocelyn Parr e Samara Chadwick.
Qual è l’opportunità e la difficoltà di lavorare sul proprio territorio?
“Come sempre la medaglia ha le sue due facce: il territorio ti ama e il territorio ti rimbalza in un costante pendolo applicabile all’ovunque. Non ho mai inteso il territorio biografico come culla protettiva ma intendo il territorio come un insieme aperto ad allargato sistemico tra paesaggio antropizzato e non in relazione alle comunità che lo attraversano, esperiscono, vivono e a volte lo devastano.”
Quale respiro hai invece nel contesto internazionale e come ti senti guardato dal mondo straniero? “In questo momento storico, fortemente attraversato da crisi e lacerazioni socio-politico-geografiche, oltre che culturali, non posso che sentirmi costantemente “straniero”, sognando, ancora da grande fanciullino, un mondo nuovissimo quanto antico finalmente e l’arte può essere un ponte per creare un habitat sereno per tutti”, anzi “tutt*” come preferisce scrivere l’artista (ndr).
A cura di Giada LUNI.