Una mostra in occasione di 100 anni dal Manifesto di fondazione del futurismo a Palazzo Blu a Pisa – dall’11 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020 – stilato da Filippo Tommaso Marinetti, poeta, letterato e geniale comunicatore e pubblicato a Parigi su Le Figaro, come non se ne vedevano da anni. Un’antologia – curata da Ada Masoero, il catalogo è di Skira Editore – con oltre cento opere, ricca di quadri e sculture di alto livello, con un allestimento in blu di carattere, senza fronzoli e un’ottima guida del percorso sia con la scansione dei diversi manifesti riprodotti, sia attraverso l’audioguida.
Il percorso segue in parallelo i diversi ambiti dell’espressione e i singoli personaggi dai fondatori, Russolo, Carrà, Boccioni e Balla insieme a Marinetti, fino all’ultimo dei futuristi, Tullio Crali, nato nel 1910 e morto nel 2000. La mostra sottolinea come, se la prima avanguardia artistica fu un ciclone, che si infiammò e si spense come molti altri fenomeni del primo Novecento, l’anima futurista si è conservata nel tempo legandosi anche ad altre correnti come il Cubismo ad esempio.
Pisa, inoltre, con quest’iniziativa riscopre il ruolo della città che ebbe un legame, seppur non diretto come Milano e Firenze o Roma con il movimento, quando molti pittori si dedicarono alla sua rappresentazione come Gerardo Dottori e Giorgio Casini. Tra l’altro nel 1913 Marinetti va in scena in città il 10 dicembre al Teatro Rossi con una serata futurista, finita con il lancio di ortaggi e interruzioni del pubblico. Al teatro verdi il noto Tamburo di fuoco e nel 1930 poi andò in scena una serata che oggi definiremmo interattiva.
La mostra è imponente ed è stata resa possibile grazie a prestiti di collezioni importanti, in testa, la Galleria Nazionale di Arte moderna di Roma e il MART di Rovereto, organizzata in collaborazione con MondoMostre, con il patrocinio del Ministero per i Beni Culturali, della Regione Toscana e del Comune di Pisa, oltre che il contributo della Fondazione Pisa, Futurismo!.
Con il primo Manifesto programmatico Marinetti inaugurava una modalità di comunicazione dirompente e inedita per la cultura, utilizzata sino ad allora solo nella propaganda politica o nella nascente pubblicità, perché, come scrisse, «gli articoli, le poesie e le polemiche non bastano più. Bisogna assolutamente cambiare metodo, scendere in strada, prendere d’assalto i teatri e introdurre il pugno nella lotta artistica».
La sua sfida alle stelle, con una carica guerrafondaia si compì nel cosiddetto Aerofuturismo che per certi aspetti non fu, almeno non solo, propaganda al Regime – in mostra Il Duce, ritratto di Gerardo Dottori – ma esaltazione per la fascinazione del volo e del progresso che vedeva avverarsi il sogno di sempre dell’uomo.
Il manifesto, diffuso con volantini stampati talora in centinaia di migliaia di copie, declamato nelle battagliere e frequentatissime “serate futuriste”, o pubblicato su organi d’informazione non specialistici, destinati a un pubblico vasto ed eterogeneo, rappresentava un’assoluta novità e una specificità del futurismo rispetto alle altre avanguardie europee del tempo anche in termini di comunicazione, popolare in un’epoca nella quale la pubblicità muoveva appena i primi passi.
D’allora in poi, il movimento avrebbe adottato questa pratica comunicativa per ognuno dei molti ambiti in cui si avventurò (dalla poesia alla pittura alla scultura, dall’architettura alla danza al teatro, dalle arti decorative alla grafica, alla pubblicità), nel suo sogno di saldare l’arte e la vita ridisegnando l’intero orizzonte umano.
Nella scelta delle opere che ha seguito lo spirito di fedeltà al manifesto originario, due sole le eccezioni alla regola: una in apertura, con lo spettacolare ritratto di Marinetti di Rougena Zatkovà, forse il più fedele al vulcanico temperamento del fondatore, e una in chiusura, con Prima che si apra il paracadute, 1939, l’opera di Tullio Crali scelta come immagine di copertina del catalogo della grande mostra Italian Futurism 1909-1944. Reconstructing the Universe, curata da Vivien Greene nel 2014 per il Solomon Guggenheim Museum di New York, con cui il museo rendeva omaggio al futurismo, riconoscendogli un ruolo d’eccellenza fra le altre grandi avanguardie europee del primo ‘900.
Il percorso è aperto dagli esordi divisionisti comuni ai cinque “futuri futuristi”: a .
Scandita in sezioni intitolate ognuna a un manifesto, la mostra attraversa poi trent’anni di arte futurista, muovendo dal 1910, quando uscirono i due manifesti pittorici firmati dai giovani “padri fondatori”. Di Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini, tra i primi a trasferirsi a Parigi, sono esposti numerosi capolavori ispirati con evidenza a quei due testi. In mostra tra l’altro la Danseuse, interessante stilizzazione, quasi marionetta, che dichiarò aver realizzato come giocattolo per i figli.
Tra le tante opere non si possono non menzionare due volti femminili di Russolo, allegorie, una del Profumo (dal Mart di Rovereto) di grande suggestione e innovazione rispetto al tema allegorico tradizionale.
Immediatamente dopo, si esplorano le emozionanti trascrizioni visuali del Manifesto della scultura futurista, 1912, steso dal solo Boccioni dopo il viaggio a Parigi di quell’anno.
Entrano poi in gioco le “parole in libertà”, i cui principi furono formulati per la prima volta da F.T. Marinetti nel 1913, nel manifesto L’immaginazione senza fili e le parole in libertà, e i nuovi modelli architettonici, dettati nel 1914 da Antonio Sant’Elia nel testo L’architettura futurista, illustrato da sue opere magnifiche (e “profetiche”), seguite dalle opere “belliche” a sostegno dell’interventismo futurista nella Grande guerra (manifesto Sintesi futurista della guerra, 1914). La piccola sezione è dedicata all’Architettura e a questo architetto che non realizzò mai nulla perché morì in guerra dove andò come volontario, mostra comunque un emblema perché rivoluziona il concetto di città e di progettazione del mondo urbano sposando la verticalità. Affascinato dalle fabbriche e da tutto quello che è assimilabile a macchine ed ingranaggi, immagina una città le cui vie di comunicazioni preferenziali sono ascensori e tapis roulant.
Un’ampia antologica è dedicata al mito della velocità, del movimento, dei treni, come anche dei mezzi pubblici che cominciavano a circolare in modo regolare. Boccioni, in particolare insieme a Balla che ad un certo punto cominciò a firmarsi FuturBalla, fu affascinato oltre che dalle auto e dai treni anche dai cavalli, tanto che morì proprio cadendo da cavallo. Il tema della velocità è anche quello della rottura con il passato con un modo distruttivo tanto che la guerra viene indicata come “sola igiene del mondo” e l’automobile più bella della Vittoria di Samotracia.
Con Ricostruzione futurista dell’universo, 1915, di Giacomo Balla e Fortunato Depero, si assiste alla nuova volontà dei due artisti di diffondere i modelli formali del futurismo sull’intera esperienza umana, in una spinta d’innovazione ignota alle altre avanguardie europee. A illustrarla, sono dipinti, sculture, oggetti, bozzetti, giocattoli realizzati dai due autori. Entra poi in scena L’arte meccanica, 1922, documento firmato da Enrico Prampolini, Vinicio Paladini, Ivo Pannaggi, che connotò con i suoi modelli geometrici e “industriali” l’arte visiva dell’intero decennio, mentre il congedo è affidato al Manifesto dell’Aeropittura, 1931, firmato da Marinetti con Balla, Benedetta (Cappa Marinetti), Depero, Dottori, Fillia, Prampolini, Somenzi, Tato, che per tutti gli anni ’30 ispirò opere suggestive e spettacolari, qui esposte al piano superiore.
A proposito di Fortunato Depero, è interessante il lavoro che fa di raccordo con le cosiddette arti minori, contribuendo ad abbattere alcuni muri e lavorando a stretto contatto con la pubblicità. In particolare ha contribuito all’immagine dell’azienda Campari con il famoso manifesto “se la pioggia fosse di bitter” e l’omino stilizzato con l’ombrello al contrario come una coppa che raccoglie l’aperitivo e il manico che funge da cannuccia, o la bottiglia, diventata poi un simbolo, a forma di coppa rovesciata. Importante tra l’altro il suo contributo insieme a Balla per i lavori di scenografia ad esempio dei Ballets russes di Sergej Djaghilev.
a cura di Ilaria Guidantoni