Un film di Karim Aïnouz del 2020 – coproduzione di Algeria, Francia, Germania, Brasile e Qatar (della durata di 80′) – girato in arabo algerino con il tipico inframezzare il discorso di parole francese (sottotitolato in inglese), racconta 24 ore ad Algeri l’8 marzo 2019, in occasione della Giornata internazionale della donna. Una manifestazione di protesta di vaste proporzioni, che riunisce diverse generazioni, contro il quinto mandato di Bouteflika. Girato con uno smartphone, il film è l’affresco di un’Algeria martoriata da oltre un secolo che non riesce a trovare una dimensione di libertà, giustizia e dignità, come recita uno degli slogan dei cortei, che poi è lo stesso della rivolta tunisina. Girato quasi tutto in notturno o comunque in atmosfere grigie e piovose, dove i colori delle bandiere algerine fanno da contrappunto; la musica è uno dei protagonisti sia come sottofondo sia nelle canzoni. Quelle cantate dalla giovane attivista Nardjes protagonista e unica voce narrante del film. La capitale appare attraverso lo sguardo dei manifestanti, una città vissuta tra quartieri popolari e il centro cittadino con scorci che chi conosce la città riconosce, senza però cedere a visioni oleografiche. Solo alla fine il sole splende su un cielo azzurro, palcoscenico della danza dei gabbiani, sul bellissimo lungomare Che Guevara, metafora della speranza riaccesa tra i giovani. Il racconto parte dalla prima speranza, poi delusa, per il popolo algerino, il 5 luglio del 1962, con la fine della Guerra d’Indipendenza contro la Francia presente nel Paese dal 1830, con una successione di immagini di repertorio. Da questo reportage emerge l’idea che solo un eroe esce da questa guerra sanguinosa, il popolo, che è stato poi oppresso dai liberatori di allora, un meccanismo della storia che si ripete e ripeterà con la décennie noire. E così la gente torna in piazza dal 22 febbraio 2019 in un momento di scontentezza generale dove i giovani vogliono solo andar via, come la protagonista che sogna un visto per l’Europa oppure di fuggire nell’Algeria deserta. E’ raccontando la propria storia, un’infanzia attraversata dalla guerra civile degli anni Novanta, di genitori impegnati – una mamma nata in prigione, un padre membro del partito comunista, a lungo in esilio in Germania (il film è dedicato al nonno) – che sente la responsabilità di provare a cambiare la società, di restare per esercitare il proprio diritto di essere cittadini nel proprio paese, imparando a non accettare l’ingiustizia. Con grande realismo il film fotografa una protesta transgenerazionale che vede mano nella mano donne giovani vestite secondo la moda internazionale e donne anziane con il velo e i costumi tradizionali ma soprattutto una nuova generazione che finalmente prende in mano il proprio destino. La protagonista dichiara di aver fiducia nei suoi coetanei che per lo più sono sottovalutati, secondo lei solo perché non hanno avuto l’occasione per una scelta. E’ così che il caffè Maghreb luogo di incontro e divertimento, diventa un punto di coordinamento per la protesta, tra l’iniziale curiosità, la stessa che anima la giovane Nardjes, la paura della polizia e la voglia di pace. Come dice verso la fine la protagonista “Una persona come me non sogna. Io voglio solo vivere in pace”. Nasce così la marea pacifica tra youyou, il grido delle donne berbere, canti e danze che mette tutti insieme malgrado le diversità e forse anche grazie al proprio essere diverso dall’altro, come lo stadio che ad Algeri sembra l’unico luogo di evasione per i giovani; come anche il teatro nel caso dell’attivista che insieme a degli amici organizza uno spettacolo di teatro da strada Hourriah, Libertà. Purtroppo dopo il cielo azzurro dell’ultima scena e la speranza che vola alta, le frasi raccontano che tutte le richieste del popolo sono andate deluse.
a cura di Ilaria Guidantoni