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Autore: Mario Ajazzi Mancini
Casa editrice: Orthotes
Anno di pubblicazione: 2021
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Quando si è in presenza di una traduzione con curatela, ci troviamo di fronte a due autori, in particolare se chi ha scritto originariamente il testo non c’è più. E’ certamente il caso di Mario Ajazzi Mancini, psicanalista fiorentino, una laurea in filosofia, scrittore e traduttore dal tedesco. Questo lo si evince dalle passioni letterarie che sono in parte quello dello stesso poeta che traduce come ci fosse un dialogo a distanza. Il testo raccoglie letture, storie di lettura, intorno all'ultima produzione poetica di Paul Celan, che cercano di sporgersi oltre la soglia idealmente tracciata dalla raccolta Atemwende (Svolta di respiro) del 1965, pubblicata nel 1967. Per raccontare degli ultimi anni di una vita dedicata alla memoria e alla poesia, alla testimonianza di una ignominia (la Shoah) e alla ricerca inesausta di un dire che potesse essere innocente nella lingua di chi forse non potrà mai esserlo. Ma anche ad accordare alla scrittura una fiducia tanto impossibile quanto straordinaria, per la sua capacità di fare argine, di compattarsi sul bordo dell'insensatezza. Posta etica che si trascrive nella massima densità di una parola, talvolta una singola parola, che è limite e sfida per la traduzione. Tanto feconda nondimeno da concedere uno sguardo differente sulle medesime cose che questa poesia indica come decisive e inaggirabili. Preghiera, sacrificio, speranza, dialogo (perfino nella follia). Il lavoro che fa in Gli incendi del tempo. Paul Celan, pubblicato in proprio a fine 2020, rivela uno sforzo che è insieme arditezza, passione e pazienza certosina. Anche per chi, come me, non legge il tedesco – il libro ha il testo a fronte, sempre prezioso – si intuisce la fatica di seguire Celan soprattutto nel gesto, che è silenzio della parola, e che apre uno spazio ampio quanto indefinito e pericoloso alla traduzione. La poesia di questo autore, rumeno di lingua tedesca, nome originale Paul Antschel secondo l’espressione tedesca, Ancel in rumeno da cui l’anagramma Celan, è folgorante senza musicalità nel senso tradizionale del termine, anzi con apparenti stonature, di un’armonia post moderna. L’impressione è di un’oscillazione tra non-sense, come a mimare l’assurdo, l’inaccettabile del reale, senza nessuna voglia di giocare o di provocare; e il groviglio denso di una dicitura filosofica che nel verso si fa ancora più enigmatica. Forse Celan ci dice semplicemente che non c’è nulla da spiegare nell’assurdo esistenziale. Nato a Cernauți il 23 novembre 1920 e morto a Parigi il 20 aprile 1970, è stato un poeta rumeno di origine ebraica, naturalizzato francese. La sua infanzia è stata caratterizzata dall’educazione rigida e repressiva del padre, quando apprende la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca in particolare grazie alla madre. I primi scrittori ai quali si appassiona sono Goethe, Rilke, Rimbaud; e sin dal ginnasio coltiva un certo interesse per i classici dell’anarchismo. Negli anni fra il 1938 e il ’40 Paul inizia a scrivere le prime poesie (poi confluite nell’antologia postuma “Scritti romeni”), intensificando la lettura di Kafka, Shakespeare e Nietzsche. Tornato in patria, a causa dell’annessione della Bucovina settentrionale all’URSS, non può più ripartirne; si iscrive perciò alla facoltà di romanistica della locale università. Poco più tardi, nel 1942, in seguito all’occupazione tedesca della Bucovina, Celan vive direttamente le deportazioni che condussero gli ebrei di tutta Europa all’Olocausto: perderà tra l’altro entrambi i genitori. La sua formazione e vita culturale sarà ampia e tortuosa e la lingua ne è testimone. Come fa notare Ajazzi Mancini nell’introduzione al testo Celan è un enigma e la sua lingua è ad un termpo Muttersprache, lingua materna, e Mordersprache, la lingua degli assassini, così la sua ricerca si muove in una spericolata terra dialettica che non è mai risolutiva. Come scrive lo stesso autore “La poesia, Signore e Signori: questo gesto infinito di un dire che parla della pura mortalità e dell’invano”. I suoi versi non si leggono facilmente, non trasportano, anzi talora respingono perché parlano di morte, di ossari, di assurdo, animati da un disincantamento che non lascia il posto neppure al dolore, alle lacrime. Sono pagine fatte di poche linee che richiederebbero certamente un lavoro di interpretariato oltre che di traduzione e che forse solo chi ne ha ruminato la lingua può svelarci.
a cura di Ilaria Guidantoni