I veri eroi non muoiono mai – titolo in italiano – è un film del 2019 con Adèle Haenel, Jonathan Couzinié, Antonia Buresi, Hasija Boric, Vesna Stilinovic, di genere drammatico, frutto di collaborazione tra Francia e Belgio della durata di 85 minuti, enigmatico, apparentemente senza storia, dove quello che è immaginato e vissuto corrono su una linea sfumato. Forse perché la stessa immaginazione dà vita alla realtà, che per altro talora sembra perdersi nella dimensione onirica. Il trentacinquenne Joachim viene molto turbato da un incontro occasionale: un mendicante in strada a Parigi lo chiama con il nome di un militare morto in Bosnia il 21 agosto 1983, lo stesso giorno della sua nascita, accusandolo di essere stato un criminale torturatore. L’idea di essere una reincarnazione dell’uomo prende sempre più spazio nella sua mente al punto che l’amica documentarista Alice decide di mettere insieme una mini troupe (un’addetta al suono e un cameraman) e di partire con lui per la Bosnia. Aude Léa Rapin, dopo aver ricevuto riconoscimenti sia come documentarista che come regista di corti, realizza così il suo primo lungometraggio partendo da un incontro realmente accaduto con un mendicante che appellava i passanti con nomi inventati per attrarre la loro attenzione. Da qui è nata l’idea di un’identificazione complessa che le ha consentito di vedere il suo film approdare alla Semaine de la Critique a Cannes 2019 e di affrontare questioni che vanno al di là dello spunto di base. Non è infatti necessario credere e neppure avere un parere sulla reincarnazione per seguire l’ispirazione del film, una pellicola film sulla morte e sul bisogno di superarne le conseguenze, sia che si tratti di quella personale che di coloro che ci sono vicini. Il territorio di una delle guerre più tragiche e disumane della seconda metà del Ventesimo secolo si presta perfettamente a una riflessione di questo tipo. La morte domina ancora, a distanza di più di due decenni, le vite dei sopravvissuti e di chi è venuto dopo. Ci sono ancora mura perforate da proiettili a ricordare quanto avvenne, anche se il mondo, che già mentre l’orrore dominava cercava di guardare altrove, ha archiviato quel conflitto. Oltre a tutta la parte finale che esplicita una lettura intimistica (ma non per questo meno significativa) c’è la scena girata su quella che fu la pista delle gare olimpiche di bob per le Olimpiadi invernali di Sarajevo del 1984 ad essere molto significativa.
Un tracciato costruito nel segno della competizione sportiva tra i popoli trasformato durante la guerra in linea di trincea tra forze contrapposte. Si tratta comunque del passato? No. Da entrambi i lati della pista, nel bosco che la circonda, ci sono mine ancora perfettamente funzionanti. La morte violenta resta in agguato. Resta un’atmosfera cupa che attraversa tutto e che si ritrova anche nella letteratura contemporanea di quei luoghi, un dolore che non viene avanti a chiare lettere ma pervade l’aria in una vita che scorre apparentemente piana, se non in modo banale. Difficile spesso da afferrare.
a cura di Ilaria Guidantoni