Si parla molto e si beve moltissimo. E’ una caratteristica saliente de teatro di Harold Pinter (1930-2008), genio assoluto e Premio Nobel nel 2005: “A colui che nelle sue commedie discopre il precipizio sotto le chiacchiere quotidiane e ci costringe a entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione”.
Il paradosso è che i serrati dialoghi (intervallati da pause e silenzi che sono un marchio della sua opera) non ci sono affatto utili per seguire e comprendere gli sviluppi delle trame e le dinamiche che muovono i personaggi delle sue pièce. Tutti appaiono avvolti in un’ambiguità (nella sua accezione positiva, il termine che forse meglio si adatta al suo teatro), la stessa che associa Jerry ed Emma, la coppia di Tradimenti, a quella di Richard e Sarah nell’Amante: coniugi amorosi o
fedifraghi impenitenti?
Così come non sapremo mai il rapporto che lega o ha legato il ricco scrittore Hirst e lo spiantato poeta Spooner di No Man’s Land – Terra di nessuno che, complice una quantità imbarazzante di whisky, si confrontano per una notte intera nel sontuoso salotto del primo: ex compagni di studi, complici dopo un fugace incontro a luci rosse tra sconosciuti in un malfamato parco londinese o intellettuali in crisi esistenziale? Qui Pinter scandaglia il rapporto tra arte e vita e seziona due esistenze non lontane dalla fine dove anche i ricordi perdono consistenza e svaniscono nell’indeterminatezza: è almeno uno di loro un personaggio reale e l’altro solo una mera proiezione di se stesso e dei suoi fantasmi?
La stessa indeterminatezza e la messa in dubbio della veridicità dei ricordi di cui ognuno offre una diversa versione la ritroviamo in Vecchi tempi, messa in scena nel 1971 da Peter Hall a Londra per la Royal Shakespeare Company e in seguito a Broadway. Siamo nella casa di campagna di Deeley e Kate, due maturi coniugi che attendono l’arrivo inaspettato di Anna, amica di gioventù di Kate la quale però non la sente da molti anni e nulla sa della sua vita da allora: ricorda solo che condividevano un appartamento, uscivano spesso insieme per passare le serate nei locali e che Anna aveva la pessima abitudine di sottrarle le mutandine.
Durante la loro conversazione, annaffiata da parecchi bicchieri di gin tonic e cognac, da Deeley veniamo a sapere che lui e la moglie si erano incontrati per la prima volta in un cinema d’essai dove, unici spettatori, alla fine del film, dopo le presentazioni, avevano scoperto ben presto di piacersi (anche grazie a un primo, repentino amplesso) e poi di amarsi.
A questo punto compare Anna (che, pur volgendo le spalle al pubblico, era già in scena dall’inizio) e da lei scopriamo un’altra verità: a Kate piaceva che lei portasse la sua biancheria intima e lo stesso film galeotto dell’incontro con il marito lo avevano invece visto insieme loro due. Dall’animato triangolo dove il tasso alcolico sale sempre più, emerge la sensazione che le due donne fossero legate da un sentimento che andava ben oltre l’amicizia e questa ipotesi sembra turbare e ingelosire il marito.
Quando Kate si assenta per concedersi un bagno ristoratore, di nuovo le carte si mescolano. Deeley che prima ignorava addirittura l’esistenza di Anna, le ricorda invece che 20 anni prima frequentavano lo stesso pub e che lui se ne era invaghito, attratto dalle sue cosce generosamente offerte alla vista, ma senza mai ricevere alcun incoraggiamento da lei. Per tutta risposta Anna afferma che non sa proprio di cosa lui stia parlando. Al rientro in scena di Kate assistiamo a un’ultima sconcertante rivelazione: sostiene che l’amica giaceva morta sul letto ricoperta di fango e poi spariva mentre un uomo prendeva il suo posto invitandola a unirsi a lui: lei invece di accondiscendere ai suoi desideri lo ricopriva di terra e lo soffocava. E’ una vicenda si svolge solo nelle menti dei personaggi? Uno di loro è morto/a? Anna e Kate sono la stessa persona oppure Anna simbolizza delle parti di Kate non conciliate con il matrimonio? Allo spettatore l’ardua risposta.
Molte sono state le messe in scena della pièce, a partire da quella, ormai entrata nella leggenda, di Luchino Visconti nel 1973 al teatro Argentina di Roma: palcoscenico trasformato in un ring, Adriana Asti (Kate) completamente nuda, a fianco di Valentina Cortese e Umberto Orsini. Successo per oltre un mese quando Pinter, in incognito, assiste a una replica e al termine, furibondo, fischia sonoramente, accusando Visconti di aver enfatizzato la relazione lesbica mentre doveva essere solo un’opzione e di aver addirittura inventato un orgasmo provocato da Deeley a Kate.
Tale fu l’indignazione dell’autore che tolse al regista (reo anche di aver utilizzato una traduzione diversa da quella indicata da lui, cambiando il titolo in Tanto tempo fa) i diritti di rappresentazione. “Non ho mai scritto una commedia lesbica, dove una donna si esibisce nuda, dove viene versato del borotalco sul suo seno, dove un uomo masturba la moglie!”
Del tutto diversa la sua reazione – con quella impareggiabile ironia che lo distingueva – 30 anni dopo in occasione della messa in scena di Roberto Andò (regista anche del film Ritratto di Harold Pinter, presentato alla Mostra di Venezia) con lo stesso Orsini, Greta Scacchi e Valentina Sperlì: “Non vedo l’ora di venire a Milano a vederla: in fondo è la prima volta che va in scena in Italia, a parte il testo omonimo di Visconti…”
L’allestimento al quale siamo più legati ritenendolo il più “pinteriano” è però quello del regista Lindy Davis che a Londra nel 1995 ha diretto un’indimenticabile Julie Christie/Kate, Harriet Walter e Leigh Lawson, dove anche sguardi, pause e silenzi erano pregni di significato.
A cimentarsi con Vecchi Tempi è ora Claudio Morganti, nome illustre del nostro Nuovo Teatro che con Alfonso Santagata alla fine degli anni settanta fondò l’omonima compagnia che ci ha regalato creazioni rimaste nella memoria tra cui anche Il calapranzi dello stesso Pinter, con i due sodali nelle vesti di attori, diretti da Carlo Cecchi. La sua scelta registica è quella dell’assoluta fedeltà al testo (nuova traduzione di Alessandra Serra, l’amata referente e vestale italiana del drammaturgo), in nome del “teatro di parola”, alternando assai bene i momenti tesi dei confronti tra i personaggi a quelli “leggeri” degli improvvisati intermezzi canori che ambirebbero, senza riuscirci, ad allentare le tensioni.
Maria Eugenia d’Aquino è dapprima una remissiva Kate che pare indifferente alle schermaglie degli altri due, limitandosi a sorseggiare i suoi tanti drink, poi man mano rivela una personalità forte e quasi prevaricante: sarà lei a dare l’ultima – personale – versione dei fatti. Annig Raimondi conferisce alla sua Anna una certa aria di voluta svagatezza che ben si addice al personaggio, un’espatriata nella solare Taormina per la quale i trascorsi londinesi sono necessariamente lontani e confusi. Il Deeley di Riccardo Magherini sottolinea la spiccata fisicità e mostra una certa dose di maschilismo che emerge nei toni bruschi con cui spesso si rivolge alle donne e nel racconto del maldestro tentativo di seduzione.
A Pacta dei Teatri di Milano sino a domenica 8 maggio. www.pacta.org
a cura di Mario Cervio Gualersi