di Fausto Galmarini
Presidente di Assifact e della EU Federation for Factoring & Commercial Finance
Il mercato europeo del factoring, sulla base dei dati resi noti dall’EU Federation for Factoring, è cresciuto nella prima metà del 2022 di oltre il 20%, dopo aver registrato una crescita a doppia cifra già nel 2021, mostrando robustezza e resilienza rispetto ai numerosi fattori di incertezza che hanno alimentato le preoccupazioni circa la tenuta del ciclo economico nei mesi a venire.
Gli effetti del conflitto fra la Russia e l’Ucraina che sconvolge l’intera Europa, la carenza di materie prime, i costi elevati dell’energia (e non solo), il tasso di inflazione e il loro impatto sull’economia, stanno comportando notevoli difficoltà alle imprese, in particolare le pmi, alcune delle quali rischiano la chiusura.
In tale contesto, il factoring può essere certamente d’aiuto, assorbendo le tensioni sul capitale circolante che derivano dall’aumento dei prezzi delle materie prime, e può assicurare la disponibilità di una fonte di liquidità rapida e flessibile anche alle imprese che non riescono ad accedere al credito bancario, grazie alla sua natura autoliquidante che valorizza la qualità del portafoglio di crediti ceduti (con rischio verso il debitore) prima ancora della qualità dell’impresa cedente.
Il factoring ha storicamente svolto questo ruolo di complementarietà rispetto al credito bancario in tutte le precedenti crisi economiche ed è preparato a svolgerlo anche nei difficili mesi che si prospettano per il futuro prossimo. Tuttavia, a tale fine, è necessario che le Istituzioni europee e in particolare le Autorità responsabili per la vigilanza prudenziale (EBA, Commissione Europea, Consiglio d’Europa, Parlamento Europeo) riconoscano che il factoring, che si basa sull’acquisto di crediti commerciali dall’impresa, è un’operazione diversa rispetto al credito bancario tradizionale e meno rischiosa: attualmente, la normativa prudenziale non valorizza adeguatamente le specificità del factoring, di fatto appiattendo i requisiti patrimoniali su quelli previsti per le banche e creando così non pochi problemi al settore, che si ritrova a dover applicare normative, requisiti e principi che, pur corretti se riferiti al credito bancario, non sono “pensati” per il credito commerciale.
Un formidabile esempio di questo tipo di problemi è la nuova definizione di default adottata a livello europeo dall’EBA, l’Autorità Bancaria Europea, e introdotta a partire dal 2021 con l’intenzione, ammirevole, di armonizzare per tutti i Paesi europei le modalità con cui vengono individuati i crediti deteriorati. Nella nuova definizione di default, un debitore che presenta ritardi di pagamento superiori a una soglia relativa, pari all’1%, e contemporaneamente a una soglia assoluta, pari a 500 euro, per 90 giorni consecutivi è automaticamente classificato a default.
Ma se un ritardo di 90 giorni per un prestito bancario rappresenta una proxy realistica di una possibile insolvenza, nell’ambito dei crediti commerciali questo non risulta vero perché le fatture per beni o servizi risultano sovente pagate, magari in ritardo, senza che questo porti a registrare effettive insolvenze. Anzi, spesso i ritardi di pagamento coinvolgono soggetti con merito creditizio elevato e dimensioni significative, nonché la Pubblica Amministrazione: ciò avviene perché i ritardi di pagamento dei debiti commerciali non indicano (necessariamente) una situazione di tensione finanziaria per l’impresa, ma sono assai di frequente il risultato di complesse procedure di procurement e verifica della fornitura che caratterizzano le imprese più strutturate e, in modo ancor più evidente, gli enti pubblici. La conseguenza paradossale della rigidità della norma introdotta da EBA è che il factor si trova spesso costretto a considerare come insolventi proprio i migliori debitori della banca, trascinando così nei non performing loan anche le esposizioni di questi verso altre banche del gruppo.
Per risolvere questo problema, l’industria europea del factoring sta lavorando affinché l’attuale processo di riforma del Regolamento Europeo sui requisiti di capitale introduca una normativa più equilibrata che consenta, in particolare, di estendere la facoltà di applicare la definizione di default a livello di singola esposizione (per il factoring, la fattura) nel caso di esposizioni verso crediti commerciali acquistati a titolo definitivo. Tale facoltà, peraltro, non rappresenterebbe un trattamento di maggior favore per il factoring ma un mero allineamento della normativa fra i diversi approcci al calcolo dei requisiti di capitale, essendo già previsto per i metodi basati sui rating interni ma non per il metodo standardizzato (adottato dalla stragrande maggioranza dei factor).
In conclusione, il factoring è pronto ad affrontare le sfide poste dal futuro, ma per sfruttare al meglio le sue potenzialità occorre che la disciplina prudenziale ne riconosca il ruolo cruciale nel supportare le imprese, in particolare pmi, il minor rischio e le peculiarità che lo rendono, in qualche modo, un servizio davvero “speciale” per le imprese. Ne è testimonianza il grado di penetrazione del factoring rispetto al PIL, in Europa superiore al 12.5% ma in Italia sopra il 15%.
E’ di tutta evidenza che senza un ripensamento del trattamento prudenziale, almeno nelle modalità del calcolo dello scaduto, i factor saranno costretti a eliminare taluni debitori dal proprio portafoglio, mettendo ancor più in difficoltà le PMI per le più ridotte possibilità di ricorrere al credito bancario in relazione alla politica monetaria, ora focalizzata sul raffreddamento dell’inflazione, e al rischio di recessione.