Torniamo a parlare di questo cantautore per il nuovo lavoro, uscito l’8 maggio scorso, sempre con Music Force, DeaR Me!, titolo che esprime una forte affermazione e un traguardo di sicurezza.
A pochi mesi un altro album complesso, ricco anche in termini quantitativi e totalmente diverso dal precedente. Come e quando ci hai lavorato? “Per intanto grazie a BeBeez per questo tuo rinnovato interesse verso il mio lavoro con l’occasione che mi offre di parlarne. Su questo disco vi ho lavorato tra dicembre del ’22 e febbraio del ’23. Sul precedente album, Mon Turin, uscito il 30 dicembre scorso, avevo terminato di lavorare già diversi mesi prima, tra marzo e aprile. Le due uscite risultano vicine, ma in realtà vi ho lavorato a un anno di distanza l’una dall’altra. Ho suonato e registrato tutto da solo nel mio studio, che non è un vero studio, ma semplicemente un angolo di casa mia. Oggi, complici le nuove e più abbordabili tecnologie elettroniche disponibili, si usa così, benché il rischio di autosufficienza solipsistica. Del resto io ho cominciato a fare musica nei primi Anni ’80, quando nacque l’etica DIY (Do It Yourself). Allora avevo un multitraccia a cassetta della Tascam. Oggi basta un computer.”
Cominciamo dal titolo…
“Dear me! è un’esclamazione che in inglese esprime sorpresa o sgomento. Può essere tradotta come “povero me!”, o anche semplicemente “ahimè!” Certo, nel gioco, poi c’è il DeaЯ del mio pseudonimo. L’album nasce dal tempo che è passato, avverando sempre più nei miei pensieri quotidiani la impensabile e intollerabile fine del viaggio della vita. Ma non è questo il concept. Per DeaЯ Me!, a differenza di altri miei lavori, non ho cercato né voluto un’idea di base.”
La lingua inglese è protagonista. Quale valore ha per un cantautore italiano?
“Non so se io sia definibile un cantautore. Sicuramente sono anche l’autore delle canzoni che canto, ma la parola “cantautore” definisce comunemente un cantante autore soprattutto di musica leggera, mentre io credo di aver cercato o ricercato e sperimentato tra i tempi, i modi e i mondi, i generi e gli strumenti musicali più disparati. Per altro la cosiddetta musica leggera nasce e vive con l’industria discografica, mentre io ne sono sempre stato completamente e volutamente fuori. Quanto all’italiano, preferisco pensarmi culturalmente un apolide, interessato alla possibilità di essere ascoltato ed eventualmente compreso ovunque nel mondo. L’unica lingua franca internazionale è oggi, ma sarà anche per lungo tempo ancora, che piaccia o no, l’inglese. Ed è anche la lingua perfetta per la mia musica, sebbene nel tempo io abbia usato anche l’italiano, il francese e, occasionalmente, qualche altra lingua. In DeaR Me! canto per altro in italiano nel refrain, ma in questo caso dovrei forse meglio dire un ritornello, alcuni versi di Angelo Poliziano, Cockles of my heart, brano che ha inoltre un’introduzione a cappella in latino basata su alcuni versi presi da Plauto. In proposito, fatta anche l’Unione Europea benché la sua ideale “disfatta” finale, non capisco alcune recenti battaglie contro l’utilizzo di termini stranieri. Ricordano il disegno politico della spesso ridicola italianizzazione dell’autarchia linguistica del regime fascista. Le lingue si sono da sempre contaminate, arricchendosi. Mi sembra invece più importante promuovere l’uso di un vocabolario sempre più ampio (e quindi anche internazionale) perché, come affermava Kierkegaard, e a suo modo anche Don Lorenzo Milani, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, poiché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponda una parola, incluse le diverse sfumature comprese nei sinonimi. Le parole non sono quindi solo uno strumento per esprimere il pensiero (e il potere o il contropotere), ma al contrario sono condizioni per poter pensare (e contropensare). E oggi, se il vocabolario italiano conterebbe 250.000 unità lessicali e fino a due milioni di parole dicibili e scrivibili”, il lessico fondamentale, già ridotto a 2000 parole, si sta oggi ulteriormente restringendo anche tra liceali e universitari. Nel 1976 il linguista Tullio De Mauro aveva fatto una ricerca per vedere quante parole conosceva un ginnasiale e il risultato fu circa di1.600 parole. Lo stesso sondaggio ripetuto 20 anni dopo nel 1996, disse che i ginnasiali ne conoscevano tra 600 e 700. Sarebbe interessante rifare il sondaggio oggi. Mai come in questa epoca è, a quanto pare, necessario che le persone smettano di sapere e pensare? È una domanda che mi pongo, niente di più. Per contro stiamo assistendo a un proliferare di orrendo slang rap, trap e drill, oltretutto totalmente vuoto, antisociale e nichilistico. In letteratura l’italiano è però insuperabile. La sublime lingua italiana la uso quindi per scrivere i miei libri, nei quali cerco di usare quanti più vocaboli possibile, in questo avversando la poetica di Georges Simenon che vantava la semplicità del suo stile scarno di vocaboli e sinonimi, avendo usato nei suoi romanzi meno di duemila parole in tutto: un lessico fondamentale, disse, come quello del “popolo nudo”. Io faccio un uso ampio di vocaboli anche nei testi delle mie canzoni, comprese quelle in inglese, nella speranza semmai che il “popolo” si vesta e si cambi senza limiti, come e quando voglia. Lo stesso principio mi muove nel proporre musica senza alcuna limitazione estetica asservita a una sua commerciabilità.”
In termini musicali che tipo di ‘sperimentazioni’ hai seguito in questa pubblicazione?
“Per la prima metà del disco ho adottato un metodo che ho chiamato “planetesimale”. Ho composto e registrato una libreria personale e casuale di frammenti che poi ho messo insieme e soltanto allora componendo i brani. Ho quindi fatto riferimento all’ipotesi planetesimale di Viktor Safronov secondo la quale i pianeti si formerebbero da granelli di polvere che collidono e si aggregano per formare corpi sempre maggiori. In questo caso io ho fatto solo da forza gravitazionale, aggiungendo via via altra massa. La seconda metà invece sono dei repêchage di miei brani degli Anni ’80 – Shadows: my soul, Otherness, Song to Grace e I’m older than I, Cockles of my heart e un paio dei ’90 – Whales weep not! e To Bacharach. Approfitto di ogni mia nuova uscita per includere sempre un po’ di brani del mio passato rimasti inediti, che sono ancora centinaia. In questo caso i vecchi brani sono anche rientrati nella sorpresa e, guardandomi indietro, nello sgomento di essere arrivato “davvero” a questi miei 57 anni. Il disco non è infatti casualmente uscito con Music Force l’8 maggio, giorno del mio cinquantasettesimo genetliaco (a proposito di sinonimi oggi relegati al vintage)…”
Il tema poetico, descrittivo di Mon Turin sposava una linea musicale precisa e conseguente. Qui qual è il fil rouge?
“Ogni canzone ha un proprio tema. Due brani strumentali sono dedicati a Klaus Schulze e a Bart Bacharach, mancati di recente. Sono stati due musicisti importanti per me fin dall’infanzia. Un altro strumentale è Whales weep not!, ispirato all’omonima poesia di David Herbert Lawrence. È un brano circolare che potrebbe suonare in loop all’infinito come le Vexations di Erik Satie. I brani invece cantati trattano argomenti senza un fil rouge. La prima traccia, Eight Seconds Of Fame, è una risposta a coloro che, ignoranti, scherniscono i “baby boomers” e a tutta la strumentale e strumentralizzata conflittualità pseudogenerazionale che, dalla mia “X” è giunta ormai alla “Z” degli Zoomers, Digitarians, Centennials, iGen, Plurals, gen Z o Post-millennials che dir si voglia… Ma soprattutto – oltre all’analfabetismo di ritorno dilagante – è preoccupante che, da recenti studi effettuati, la soglia d’attenzione media sia oggi scesa a otto secondi, meno di quella di un pesce rosso. Questo per un abuso generale di tecnologia e il costante flusso di informazioni e suggestioni attraverso Internet e i social. DeaЯ Me!, da questo punto di vista, è la mia ennesima provocazione: non faccio singoli, né extended play, ma dischi di 75 o più minuti, tanti quanti ne può contenere il supporto; né scrivo canzoni di due o tre minuti al massimo. Ogni mia canzone dura quel che deve. Assurda, anzi demenziale anche la pratica dello sped up songs e del cosiddetto nightcore, che accelera il tempo del materiale sorgente. E poi ci sono i miei pensieri contrari ad altre stupide tendenze contemporanee, come la cosiddetta “arte del decluttering” e tutto il superficiale “falso Zen” e il minimalismo modaiolo di una società sempre più superficiale, atemporale nel suo istante mercificato, da spogliare, semplificare, da ridurre a massa di impotenza manipolabile. In altri brani si parla di vecchiaia, di morte, di bisogno di Dio e di una vita oltre la vita ma anche di capodanni, vampiri, amori impossibili, dell’11 settembre e la fine del tanto sognato e agognato utopico anno 2000, quanto meno per quelli che – come me – nacquero e vissero tra gli A’50 e ’70, infine deludente e distopico, decisamente disastroso. Ormai i nostri sogni sono stati retrocessi a mero retrofuturismo. In “Life after life”, un brano per hang drum, didgeridoo e arpa eolica, racconto invece la storia dei miei nonni emigrati in America a Philadelphia e della fine del loro “sogno americano”. Axis Mundi è il resoconto di una mia meditazione in cui pratico una respirazione profonda e consapevole. In Sequeri uso una forma di preghiera, detta appunto “sequeri”, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute e, perché no? …anche gli amori perduti. Molte mie canzoni, in fondo, soprattutto quelle più recenti, nascono come una forma di personale preghiera, cioè da momenti in cui cerco di parlare al “sacro”. In Wind, liberamente ispirata a una poesia di Robert Penn Warren, mi sono immaginato nel quadro Gas di Edward Hopper. DeaR me! (Sweet Philly) è un omaggio al Sound of Philadelphia, particolarmente amato nell’infanzia, e a tutti i musicisti di un’epoca musicale ormai “mitica” (e probabilmente insuperabile allo stato attuale) che, per ovvie ragioni anagrafiche, se ne stanno andando in questi anni. E avanti. Insomma, non c’è alcuna connessione ideale o concettuale tra i brani. Il vero filo rosso è anzi proprio il fatto di non averne voluto uno, poiché anche questo sembra essere ormai un obbligo o un’aspettativa nel fare un album o nell’ascoltarlo. Anche musicalmente ci sono cose molto diverse. C’è una sola poetica in tutto il mio lavoro: la voglia di vivere tutto il possibile allontanando con l’arte il “nulla eterno” della foscoliana “fatal quiete”. E se Montale, in un vivere percentuale, si assegnò solo un cinque per cento, beh, io sto ancora molto sotto l’1. E “troppo spesso invece piove sul bagnato”.. À suivre…”
Chi è Davide Riccio
In arte DeaR dalle sue iniziali pronunciate in inglese, cantante, compositore, musicista polistrumentista e scrittore di Torino, ha esordito negli Anni ’80 come solista e nei gruppi Bluest, Off Beat e Individua Vaga. Nel 2006 ha realizzato il cd L’Orfeo Concluso con Mirco Ashtool Rizzi e altri musicisti sperimentali italiani e statunitensi (Into my bed/Bosco Rec./Mila Records). Nel 2007 ha preso parte al cd Voci dei Timelines con Claudio Ricciardi e Giuseppe Verticchio, testo basato su La Strega di Jules Michelet (Unamusica). Suo ultimo lavoro solista è stato il doppio cd New Roaring Twenties / Human Decision Required (New Model Label, 2021). Ha curato i progetti collettivi tra i quali Neumi – Cantus volat signa manent di autori vari (libro con cd, 2011, Genesi editrice/Into my bed recordings) e Flatland (Kipple, 2011).
Ha partecipato a lavori di altri musicisti tra cui Roulette Cinese (Chinese Pop, 2012), Day Before Us di Philippe Blache (Script Of A Journey Through The Time-Image, 2015 e Prélude à l’âme d’élégie, 2015), Deadburger (La chiamata, 2020).
Suoi brani sono presenti in svariate raccolte anche su vinile, tra cui Punto Zero n. 15 della Toast records (“Ma poi non arrivi mai” con Carlo Actis Dato).
Suoi i libri Povertissement (Genesi, 2006), Sversi (Libellula, 2008), Neumi (Genesi, 2011), Solo a Torino (Albatros, 2019), Italian Bowie – Tutto su David Bowie visto in Italia e dall’Italia (Kult Underground, 2019), Poesie fuoriporta (Campanotto, 2020), Raccolti (Oedipus, 2020), Poi Sia – Poesia concreta e visuale (Genesi, 2021), La Banca dei Reincarnati (romanzo, Genesi, 2021), Il Musico – Una storia ritrovata, biografia di David Rizzio (Genesi editrice, in uscita nel 2022).
Ha curato i programmi Insolita Musica, Il Bobinone, Ciao Torino e Italian Bowie tra il 2014 e il 2019 per la radio torinese Radio Banda Larga. Collabora dal 2004 con la e-zine Kult Underground, per la quale ha intervistato oltre 800 artisti e gruppi musicali italiani e internazionali. A fine 2021 è uscito per Music Force e con distribuzione Egea il suo nuovo album Out of Africa.
a cura di Ilaria Guidantoni