L’azienda Luretta, che prende il nome dalla Val Luretta, nell’Oltrepò, ha saputo unire arte ed economia. Un matrimonio nato nel tempo dalle passioni dei proprietari, Felice Salamini, Carla Asti e il figlio Lucio, originariamente dediti all’allevamento dei bovini francesi, che si sono appassionati delle bollicine, dedicandosi in esclusiva al Metodo classico e sfidando la notorietà della vicina Franciacorta, con una scelta coraggiosa e personale di non legarsi alla tipica viticoltura locale, che evoca nomi quali Gutturnio o Ortrugo, vini frizzanti e autoclavi. Luretta ha scelto per i vini autoctoni una reinterpretazione e qualche azzardo. Poi è arrivato il Castello di Mameliano ristrutturato, attrazione turistico-culturale con anche un’attività di ristorazione, Al Contesse, e si è unita la passione per l’arte che si ritrova nei nomi e nelle etichette dei vini e anche nelle residenze di artisti ospitati a Gazzola, in provincia di Piacenza. La gestione esclusiva del Castello del XII secolo nasce dall’amicizia con la famiglia Negri, in particolare con Giovanni Negri, Docente all’Università Cattolica di Piacenza con il quale è nata Giurisprudenza nella città e della quale è stato Preside della Facoltà di
Giurisprudenza, è mancato nel 2020. Il Castello è diventato luogo di iniziative culturali grazie ad una collaborazione da anni con la Galleria delle Visioni di Piacenza, con la presentazione di libri e cantanti lirici e ospitando periodicamente artisti che intervengono in cantina a presentare le loro opere che rimangono poi esposte per alcuni mesi come gli scultori Giuseppe Tirelli e Biorn Skaarup; i pittori Matteo e Nicola Nannini, Marco Manzella, Paolo Quaresima, Doriano Scazzosi e Franco Chiarani.
La produzione vinicola, presentata alla stampa al Nuovo Yacht della famiglia Sanviti di Milano, è propria di un’azienda biologica fin dall’inizio che ha scelto la filosofia dei cru francesi, vini che nascono da un’unica vigna, particolarmente vocata, con nomi di fantasia legati alla storia del luogo o all’arte perché il racconto e l’aspetto culturale è parte integrante della scelta produttiva aziendale.
Così Principessa – 100 per cento Chardonnay, profumato e fresco – metodo classico di benvenuto per gli ospiti, fa
gli onori di casa come una principessa nel suo castello. Per quanto riguarda invece lo spumante rosé On Attend Les Invités il nome è legato a un quadro che Carla Asti ha visto a Stoccolma, del pittore svedese è Otto Gustav Carlsund, e del quale ha chiesto la liberatoria per poterne utilizzare il nome; grande prodotto, Pinot nero 100% con maturazione sulle bucce,, 50 mesi sui lieviti. Boccadirosa è una Malvasia aromatica di Candia, chiamata così sia in ricordo del cantautore Fabrizio De Andrè, amico di famiglia, sia perché regina delle uve bianche dei Colli Piacentini, adottata da queste terre bianche ricche di marne calcaree che restituiscono al gusto sapidità, balsamicità e forte mineralità. Le Rane invece alludono ai vigneti circondati da laghetti naturali dove la presenza delle rane è indice di benessere ambientale; e I nani e le ballerine esprime l’aspetto giocoso di un Sauvignon Blanc, un vino d’impronta francese. Sulla Malvasia vale la pena ricordare che in realtà è un nome che indica vitigni differenti, che probabilmente hanno in comune soltanto il nome, che deriva da una città greca del
Peloponneso, Monenbasia o Monenvasia o Monovasia, che significa “porto ad una sola entrata”. Si attribuisce ai veneziani l’uso di tale appellativo per denominare i vini provenienti dalla parte orientale del Mediterraneo ed i locali in Venezia nei quali si svolgeva il loro commercio. Con il tempo i vini bianchi del Mediterraneo hanno soppiantato quelli provenienti dalla Francia e dal Nord Europa perché più adatti a durare nel tempo; sopportavano meglio il viaggio grazie ad un elevato grado zuccherino, struttura e gradazione alcolica. Per questo incontravano il gusto di allora e venivano considerati più pregiati quindi ammortizzavano meglio i costi del trasporto. Ancor oggi la Malvasia di Candia Aromatica in queste zone è importante e non è un caso che Luretta ne realizzi una con appassimento sulla pianta. Interessante l’intreccio tra le componenti dell’attività di produzione, prodotto in senso ampio e ricettività: così si possono organizzare degustazione che portano ad assaporare anche storie e la storia del luogo e del castello in particolare.
Il Castello di Momeliano, costruito alla metà del 1300 circa, ma già presente in documenti ben antecedenti, fu variamente modificato fino al periodo rinascimentale. Ben conservato, presenta pianta quadrata con torri angolari sporgenti rotonde, eccetto quella occidentale, quadrata, e un bel cammino di ronda. Sono ancora visibili le tracce degli incastri del ponte levatoio; la merlatura, ora chiusa ad arco e percorribile per mezzo di uno stretto corridoio; le finestre ad arco acuto, ora murate; la loggia verso il cortile, con due coppie di archi. La costruzione conserva anche una torre, esempio di arte fortificatoria minore; quest’ultima pare che fosse una dipendenza del castello costruita nel XV secolo. All’interno, a due piani, in alcune lunette sono definiti gli stemmi delle nobili famiglie che ne furono proprietari.
Le prime notizie dell’attuale castello, risalgono al 1368, quando il suo possessore, Castellino Dolzani, lo vendette a Ruffino Borri. Quattro anni dopo, durante la guerra che il pontefice conduceva contro Galeazzo II Visconti, Momeliano, come altri borghi del territorio piacentino, subì l’invasione delle truppe papali e dovette accogliere il presidio dal cardinale legato Pietro Buturicense. Nel 1488 il castello era di Giovanni Albanesi, detto Rubbino; tre anni dopo ne era il signore il nobile Antonio Ceresa. Per successione ereditaria il fortilizio nel 1530 perveniva alla famiglia Bottigella. Verso la fine del secolo subentrava il marchese Ferrari e nel 1595 ne era già signore il marchese Luigi Lampugnani, proprietario di altre terre nel parmense e in Lombardia: fu lui che fece ricavare un oratorio nel torrione orientale del castello. Dopo l’estinzione della famiglia (1742), il feudo venne avocato dalla Camera Ducale; la vedova Lampugnani tuttavia ottenne dal duca di Parma e Piacenza, don Filippo di Borbone, la facoltà di abitare nel fortilizio per amministrare i beni che possedeva nella zona. Il conte Gherardo Portapuglia nel 1798 acquistava il castello che passava quindi ai fratelli Giovanni e Piero Jacchini e a essi, per eredità, subentrava Gaetano Basini. Da qui la denominazione Castel Basini data alla rocca. Gli eredi Jacchini si opposero al testamento promuovendo una lite che durò 30 anni al termine della quale il castello passò nelle mani di vari proprietari. Nel 1868 era degli Stevani, nobile famiglia a cui appartenne il colonnello dei bersaglieri Severino, valoroso combattente delle guerre d’indipendenza ed esperto agricoltore. Attualmente il castello di proprietà privata, ospita le cantine dell’Azienda vitivinicola collocata nel perimetro delle mura esterne.
a cura di Ilaria Guidantoni