Un ricco programma di prosa, musica, danza, performance, residenze creative, workshop e reading è quello offerto in nove giorni da Primavera dei Teatri, il festival di Castrovillari, diventato una meta obbligata per gli estimatori del nuovo teatro e per assistere in anteprima a spettacoli poi destinati ai circuiti tradizionali.
E’ diventato il rinomato trampolino di lancio per artisti, compagnie e spettacoli sempre innovativi e mai scontati, attivi nell’area della ricerca, della nuova drammaturgia e della scena contemporanea italiana: Primavera dei Teatri 2023 è tornata a Castrovillari, la cittadina calabrese ai piedi del monte Pollino, alla sua originaria programmazione tra fine maggio e inizi giugno, dopo la parentesi settembrina dello scorso anno. La XXIII edizione, curata dai direttori artistici Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, ha messo a punto un programma che comprendeva 16 novità assolute, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali: problematiche sociali, teatro civile, classici rivisitati e non è mancata un’incursione nella danza per animare molti spazi tradizionali e non convenzionali come i teatri Vittoria e Sybaris, il Protoconvento Francescano e il Capannone Autostazione. Le prime proposte del cartellone hanno visto, tra gli altri, scendere in campo le compagnie Maniaci d’Amore e Kronoteatro, di nuovo riunite dopo l’ottimo esordio della Fabbrica degli stronzi, con Big in Korea, un tuffo nel mondo del calcio ma all’insegna della leggerezza e del
surreale, dove un allenatore zoppo e un giocatore non più giovane sognano di emigrare nel paese dell’estremo oriente per iniziare una promettente carriera.
Elena Bucci, attrice, autrice e regista, fondatrice con Marco Sgrosso della compagnia Le belle bandiere, ha proposto il suo assolo Canto alle vite infinite, in cui dà voce a chi non ne ha mai avuta: ritratti di uomini e donne nei quali realtà e immaginazione si mescolano, rendendo anche un tributo alla sua Romagna e a quella lingua, ritrovate dopo anni di vita nomade. La poetessa Patrizia Valduga ha presentato in un’inedita versione il suo Donna di dolori che Luca Ronconi mise in scena nel 1992 con Franca Nuti: qui, con la cura di Antonio Calbi, l’autrice diventa anche interprete, insieme all’attrice Daniela Piperno. E’ l’audace monologo di una donna morta e sotterrata il cui corpo subisce la lenta dissoluzione: la coscienza e la parola rimangono però vive e si lanciano
in un’invettiva sull’esistenza e sul trapasso. Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi sono da oltre dieci anni legati in un felice sodalizio artistico: l loro ultimo lavoro, Umanità nuova. Cronaca di una mancata rivoluzione, parte dai Moti di Reggio Emilia (nel 1960 durante una manifestazione sindacale le forze dell’ordine uccisero cinque civili inermi) per approdare alla generazione dei ventenni del ’68, gli stessi che hanno lottato e perso, per giunta strumentalizzati dal potere.
Ricordiamo Federica Carruba Toscano in molti lavori della compagnia Vucciria Teatro: a Castrovillari
ha portato Penelope, drammaturgia e regia di Martina Badiluzzi, in cui del personaggio dell’Odissea si sottolinea la resilienza e la
determinazione. Rimaniamo nell’ambito del poeta omerico
ma ambientato ai giorni nostri e in LidOdissea ritroviamo la famiglia
composta da Ulisse, Penelope e Telemaco in
vacanza al mare.
Ulisse è un uomo inquieto, insoddisfatto della monotona routine matrimoniale e s’improvvisa galante play boy: la sua prima conquista è la diciassettenne Nausicaa. Qui non le compare davanti completamente nudo come ci racconta Omero, ma l’affascina con l’eloquenza e le tante bugie, tra cui quella di non avere quasi legami tranne ad accennare a una lontana compagna. Penelope allora gli rende pan per focaccia e si concede un gratificante amplesso con Antinoo, uno dei capi dei Proci (pretendenti), in origine 108 giovani nobili di Itaca e delle vicine isole che aspiravano a prendere il posto di Ulisse nel talamo e sul trono. Più a rischio l’incontro con la maga Circe che ha il potere di trasformare gli uomini in maiali, destino a cui Ulisse sfugge e rimane con lei per un lungo anno prima di far ritorno a casa. A cimentarsi in questa originale rivisitazione sono Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, coppia artistica da vent’anni, autori, registi (con la collaborazione di César Brie) e anche in scena insieme a Ludovico D’Agostino (Telemaco) e alla cantante Silvia Zaru, una sorta di aedo non vedente. In sintonia con i lavori precedenti come I figli della frettolosa e Amleto take away, anche questa ci sembra un’ulteriore riflessione sui conflitti interiori dell’uomo contemporaneo, la sua inquietudine esistenziale, il timore di venir schiacciati dalla competizione. La pièce si fa apprezzare per i dialoghi pieni d’inventiva, spesso virati al rap, l’impiego ottimale dei pochi arredi come il grande telo che simboleggia il mare o le persiane verdi che fungono da siparietti dietro cui i personaggi appaiono e scompaiono, ma nel finale viene indebolita dai proclami ideologici e un po’ scontati sulla dipendenza dalla società dei consumi esternati da Berardi.
Ci muoviamo ancora in ambito classico e da Omero passiamo a Eschilo che nei Persiani, rappresentata per la prima volta nel 492 a.c. al teatro di Dioniso di Atene e nel giro di 2/3 anni al teatro Greco di Siracusa, narra le vicende della guerra tra Sparta e Atene con la disfatta della flotta persiana a Salamina e la definitiva sconfitta di Serse, figlio del re Dario. A proporcene una versione assai minimalista sono Silvio Castiglioni, attore e ricercatore teatrale, già direttore artistico del festival di Santarcangelo, e la compagnia toscana I sacchi di sabbia che in Persiani di Eschilo. La tragedia più antica del mondo, prosegue, dopo I dialoghi degli dei di Luciano, l’Andromaca di
Euripide e I sette contro Tebe di Eschilo, la ricerca sui tragici greci. Castiglioni si serve di un semplice apparato scenico (un tavolino sul quale muove bianchi coni che dovrebbero simboleggiare le navi e una mensola su cui sposta verdi tasselli, forse i cittadini che attendono le sorti della battaglia, la madre di Serse e lui stesso, reduce che implora pietà agli ateniesi) curato, al pari della regia, dai Sacchi di sabbia. La scelta è sia azzardata che ingegnosa, ma si avverte la mancanza di pathos a cui Eschilo ci ha abituati.
Le favole non sono collocabili in alcuna dimensione temporale e fanno parte di un patrimonio comune che solletica il nostro inconscio e i più genuini moti dell’animo. Volendo giustamente attingere anche in questo campo alle fonti calabresi, Dario De Luca si è rivolto alla prezioso lavoro di Letterio Di Francia, nato a Palmi e vissuto tra fine ottocento e inizi novecento, massimo studioso della novella italiana, focalizzandosi sulla storia di Re Pepe, riscritta da Marcello D’Alessandro. La favola è parte della raccolta Re Pepe e il vento magico. Fiabe e novelle calabresi, edita da Donzelli, ripresa anche da
Italo Calvino nell’Antologia delle fiabe italiane. Nonostante il titolo, il protagonista non è il sovrano bensì sua figlia che, indispettita dalle pressanti richieste del padre affinché si trovi un marito, un bel giorno decide di crearselo da sé e comincia letteralmente a impastarlo con farina e zucchero. Per dargli l’aspetto migliore ci impiega alcuni mesi ma il risultato infine la soddisfa. C’è però un problema: la creatura non ha il dono della parola, ma lei non si perde d’animo e, ficcandogli in bocca un peperoncino rosso, riesce a farlo parlare. Ha così inizio la loro sofferta vicenda che vede alternarsi gioie (quei piaceri carnali a cui la fanciulla è particolarmente votata) e sventure, gelosie, ripicche e vendette. Per il suo affascinante melologo Re pippuzzo fattu a manu, Dario De Luca propone tre diversi finali che il pubblico potrà votare decretando quello definitivo. Con la sua efficacissima performance, De Luca dà voce, variandone il timbro, a tutti personaggi, rendendoci partecipi delle loro traversie, stimolando la nostra fantasia e arrivando a farceli immaginare come in un rutilante film a colori, oltre a superare brillantemente l’ostacolo del dialetto calabrese che finisce col diventare familiare anche ai nordici. Un validissimo supporto è offerto dallo strumentista Gianfranco De Franco che, anche con presenza scenica, crea una molteplice gamma di suoni con tastiere, campana tibetana, flauto traverso, theremin e altri inconsueti dispositivi che s’intonano al meglio con le diverse fasi della fiaba.
Dai classici e da un passato ancestrale ci trasferiamo al nostro presente e ci caliamo in un interno domestico: è quello di due coniugi che si apprestano a festeggiare il compleanno di lei con una cena al ristorante. L’uscita da casa viene di continuo rimandata da discussioni che sfociano in battibecchi, inopportune e respinte visite di
una vicina di casa, l’osservazione dei passanti dall’alto del terrazzo, quasi minuscoli insetti in moto, facendosi domande senza risposta sulle loro vite e abitudini. Non manca il regalo che lui ha preparato: uno spinoso cactus, forse simbolo di quell’unione che comincia a risentire dell’usura del tempo. Finalmente rompono gli indugi ed escono ma al ritorno si accende di nuovo il confronto, vuoi sulla qualità del cibo o sul pavimento dell’appartamento. La sindrome delle formiche è un testo un po’ criptico del drammaturgo Daniele Aureli, anche regista insieme a Massimiliano Bruni. Ciro Masella e Giulia Zeetti si prodigano per rendere plausibili i dialoghi spesso surreali e, lui pacato, lei più aggressiva e veemente, e raggiungono l’intento senza però trasmetterci emozione (ce la provoca la voce di Sergio Endrigo che canta la struggente Canzone per te) o
empatia. Dall’Italia attraversiamo l’oceano e approdiamo a New York dove è ambientato Città sola, tratto dall’omonimo libro della scrittrice inglese Olivia Laing, tradotto da Francesca Mastruzzo, adattato da Fabrizio Sinisi e diretto da Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli, quest’ultima anche in scena, due componenti dell’ensemble La casa d’argilla di cui abbiamo molto apprezzato When the Rain Stops Falling e il recente Anatomia di un suicidio. Laing ci conduce per mano attraverso le strade della metropoli, osservando i grattaceli le cui finestre, buie o illuminate, paiono celle che nascondono solitudini, riti e segreti. Il libro si divide in sette capitoli, ognuno dei quali è dedicato a più o meno celebri artisti che hanno vissuto e celebrato la Grande Mela. Tra loro Andy Warhol che di sé diceva di “essere sposato con un registratore” ed era legato al pittore e graffitista Jean-Michel Basquiat in una tormentata storia d’amore; Edward Hopper, di cui si ricordano il difficile coming out, le violenze da parte degli omofobi e il sesso promiscuo in anni in cui non era ancora comparso lo spettro dell’Aids che arriva e fa scempio nei primi anni ottanta. Ne fu vittima anche il cantante pop tedesco Klaus Nomi che in America si era trasferito con alterne fortune, conosciuto nell’ambiente underground e notato da David Bowie che nel 1978 lo portò come corista al Saturday Night Live sulla rete tv NBC. Ferlazzo Natoli alterna lettura a recitazione, supportata da suggestive immagini a colori forti (come quelle di Maria Callas), dalle musiche (Paint it Black, Too Many Friends) e ci consente di percepire l’atmosfera e il fermento culturale di quegli anni irripetibili.
Torniamo nel nostro paese e precisamente a Palermo, teatro nel 1992 di due terribili omicidi di mafia, quelli dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui abbiamo da poco celebrato gli anniversari della morte. Ce li rammenta, ma da un’angolazione del tutto inedita, l’attore e regista Giuseppe Provinzano in Storie di noi, testo di Beatrice Monroy. Testimoni indiretti di quei due funesti pomeriggi sono cittadini comuni, palermitani come Tony, uomo del popolo, che si fa portavoce e racconta in 57 minuti i 57 giorni intercorsi tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Ci dice di Giusy, fresca sposa il cui padre, venuto a conoscenza del misfatto, intima il silenzio agli invitati del banchetto nuziale così da non turbare l’allegria della giornata, oppure cita i ragazzini, cresciuti negli stessi quartieri dei criminali, che in quegli istanti sono impegnati in una partita di pallone. C’è chi si trova in spiaggia a Mondello a godersi il sabato o la domenica e ci sono, per fortuna, anche i palermitani per bene che reagiscono ai massacri scendendo per le strade. Provinzano ci accoglie in silenzio con due modellini di auto che sfrecciano davanti a noi: una è rossa come quella di Falcone, l’altra è bianca come quella di Borsellino. Poi inizia con ardore e cipiglio a raccontare quei giorni scolpiti nella nostra memoria, con l’ausilio delle voci fuori campo, tra le altre, di Filippo Luna, Ninni Bruschetta e Lucia Sardo. Un bell’esempio di teatro civile di cui soprattutto i giovani dovrebbero fruire. Di Giorni Felici di Samuel Beckett abbiamo visto molte versioni, alcune assai tradizionali (ad esempio quella con Giulia Lazzarini, firmata da Giorgio Strehler, o quella diretta da Peter Brook con Natasha Parry) o innovative, alcune riuscite altre meno. Una sicuramente riuscita è quella del collettivo napoletano Putéca Celidònia che la intitola Felicissima jurnata, drammaturgia e regia di Emanuele D’Errico e con Antonella Morea splendida protagonista. Al posto del consueto monticello di sabbia, una sorta di alta piramide domina la scena e alla sua sommità è assisa l’attrice di cui, come prescriveva l’autore nelle ferree note di scena da rispettare, scorgiamo solo la testa. La parte inferiore ci mostra invece l’interno di un tipico basso del quartiere Sanità dove si muove il silente marito intento alle faccende domestiche. La Winnie partenopea si rivolge a lui e al figlio Lello, prodiga di consigli, raccomandazioni ma anche rimbrotti. A farle da contraltare sono le voci autentiche e registrate degli abitanti del quartiere, Assunta, Angela e Pasqualotto che con schiettezza e semplicità ci mettono a parte della loro quotidianità, la difficoltà di far quadrare i conti con i prezzi che salgono, la cura per il cibo e il tempo trascorso davanti alla televisione per seguire i programmi dei loro beniamini. Un affresco potente valorizzato dall’affascinante, anche se talvolta ostica, lingua napoletana.
Di Via del Popolo, scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina abbiamo dato ampio conto in queste pagine lo scorso gennaio in occasione del debutto milanese, ma è stata una bellissima emozione rivederlo nel luogo in cui è ambientata la storia, proprio la Castrovillari sede del Festival, a cui Saverio è approdato a sei anni con la famiglia, traferitasi dal paesino di montagna dal quale è originaria e dove il babbo aveva aperto un bar. In una sorta di Alla ricerca del tempo perduto l’autore ci conduce per mano a conoscere i tanti personaggi che hanno accompagnato la sua infanzia, adolescenza e maturità, un’indimenticabile galleria di caratteri alcuni dei quali sono effigiati nelle lapidi del cimitero. Un altro protagonista della pièce è infatti il tempo (simboleggiato in scena da uno degli orologi sciolti di Salvador Dalì) che ha radicalmente mutato l’aspetto della strada del titolo, dove sono scomparsi tanti negozi al pari dei loro titolari, ognuno con una sua caratteristica fisica o caratteriale, tanto che per percorrerne i 200 metri prima ci si impiegavano 20 minuti mentre ora ne bastano due. Teneri e nostalgici sono i ricordi che riguardano i suoi genitori, il padre che se n’è andato e la mamma severa e protettiva. Un piccolo gioello che ha giustamente meritato una lunga tournée che ancora continua con immutato successo.
Tra le proposte della danza contemporanea, citiamo almeno Beat Forward, coreografie di Igor Urzelai e Moreno Solinas (li abbiamo visti ballare in Idiot-Syncrasy allo scorso CampaniaTeatroFestival) con Roberta Racis, Fabio Novembrini, Siro Guglielmi e Silvia Sisto, che in una prima parte molto sensuale stimolano le zone erogene del corpo o mimano immaginarie pratiche sportive senza però avvicinarsi l’uno all’altro, nella seconda lo fanno e i corpi prendono finalmente contatto. Welcome to My Funeral, coreografato da Brandon Lagaert (artefice di molti lavori dell’ensemble belga Peeping Tom) fa più riferimento al teatro danza. Ci immergiamo nel mondo della realtà virtuale dove qualcuno riesce a ribellarsi alla vita artificiale e alla schiavitù dei visori e scopre l’acqua: subito si cerca di riportarlo nei ranghi con la violenza ma lui/lei riesce a staccare l’apparato elettrico che mantiene operativo quel regime autoritario e futuribile. In scena i danzatori Alessandro Ottaviani, Anabel Marotte Moreno, Olivia Grassot e Tonia Laterza. Appuntamento al prossimo anno per altri giorni ricchi di piacevoli scoperte e gradevoli conferme.
a cura di Mario Cervio Gualersi