Alla Galleria Continua di San Gimignano aprono quattro mostre a cominciare dalla collettiva nel teatro, sede centrale, un’esposizione singolare perché non vi sono solo gli artisti con i quali lavora la Galleria e per l’ampio arco storico che si estende dal 1500 al 2023, sviluppando un tema per ogni sala; le tre personali invece sono in altri spazi della Galleria diventando tappe di un percorso.
Tensione continua
La mostra, a cura di Carlo Falciani, docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Firenze – attraverso la selezione di un nutrito numero di opere capaci di una forte dialettica col Novecento e col passato, il curatore sviluppa una riflessione sul tema della tensione declinandola sotto diversi punti di vista: la tensione come flusso di energia, come reazione di un corpo ad una forza esterna, come uno stato di eccitazione, ma anche come percezione di un contrasto sociale, e ancora come risultato di un intenso impegno intellettuale. Falciani raggruppa le opere in alcune partizioni principali intorno alle quali pensa sezioni omogenee di lavori in dialogo fra di loro e le dispone in precisi spazi della Galleria, scelti per la loro funzionalità al tipo di tensione. “La tensione è il primo elemento che appare in molte opere presenti nell’archivio di Galleria Continua, che ha sempre coinvolto, fin dai suoi primi passi, artisti attenti alle tensioni sociali, estetiche, contemplative, e capaci di far dialogare il panorama locale con quello globale, in una visione che avesse al centro una potente umanità. In questa prospettiva di analisi storica e non solo di critica del contemporaneo, il lavoro più forte compiuto da Galleria Continua è stato quello di trasportare una visione attenta alle radici locali di ciascun artista in una prospettiva planetaria, mantenendone intatta l’integrità espressiva” dichiara il curatore.
Il percorso della mostra si articola per nuclei stilisticamente anche disomogenei, scelti a rappresentare differenti forme di tensione, in primis in quella relativa alle forze che regolano l’universo.
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All’ingresso il tema si declina sulle leggi fisiche e si è accolti da un’installazione di grandi dimensioni di Alicia Kwade, protagonista anche di una personale. Tre pietre e tre specchi intorno ai quali si può girare: la pietra naturale fa da modello alle altre, rispettivamente in alluminio e bronzo, con un gioco di specchi e di illusioni. Una poesia più profonda di quell’episodica espressione connessa ad una natura intesa oggi dal sistema della comunicazione solo come teatro di uno sviluppo sostenibile. A simbolo di una origine antica di un sentire differente, razionale e poetico allo stesso tempo, viene esposto il Sidereus Nuncius di
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Galileo Galilei, con le sue incisioni delle fasi lunari in un testo fondante la rappresentazione moderna del sistema solare. Un testo che simboleggia un percorso secolare di comprensione ma anche di riflessione poetica sulle leggi che regolano le forze naturali, espresse anche da Arcangelo Sassolino, in mostra con una macchina che viene attivata suscitando un forte impatto nel visitatore con un effetto sonoro disturbante; leggi della natura registrate anche dagli anelli di accrescimento dell’albero scavato in un’azione che va indietro nella storia da Giuseppe Penone, o rappresentate dai resti di combustioni che disegnano galassie e nebulose, Back Wings del 2017 di Cai Guo Qiang, artista cinese noto per le sue opere che mettono insieme la linea conservativa del governo e l’effetto devastante attraverso le sue esplosioni di polvere da sparo per il quale è noto, inventata in Cina appunto.
Il secondo capitolo è rappresentato dalla tensione erotica come motore espressivo dalle radici antiche ed è qui rappresentata da immagini e sculture del brasiliano Jonatas De Andrade, presente con foto e sculture, una tensione che concentra lo sguardo su parti del corpo capaci di rapire la mente verso un’ossessione, cristallizzata anche nelle cere di Berlinde De Bruyckere. La sua opera, Arcangelo glassdome III, è una sorta di natura morta, i piedi dell’Arcangelo al quale si ispira legati e incapsulati dentro una teca, la sua risposta alla domanda che le fu rivolta nel momento tragico della pandemia, di cosa avrebbe voluto portare con sé.
La tensione sociale che agita questo nostro tempo è invece rappresenta nello spazio più ampio del teatro, clou emozionale dell’esposizione, dove lo sconcerto di una società, che nei desideri del metaverso si vorrebbe non più divisa per classi, vive immerso nello scintillio apparente di un tempo che la pubblicità pretende lussuoso e luminoso ma che invece è tagliente nell’infranto Miroir du Monde di Kader Attia, che frammenta l’umanità in individui, ognuno dei quali alla ricerca di sé stesso, impossibilitato a trovarsi in un continuo rimando di riflessi, una sorta di gioco di pirandelliana memoria. Sulla grande installazione a pavimento si riflette la grande scultura funerea di Ai Weiwei, su scala ridotta rispetto al lavoro esposto all’isola di San Giorgio alla Biennale di Venezia del 2022. L’opera gioca su un’inversione di senso con un lampadario in vetro di Murano, nero, dove il motivo del decoro se lo si osserva attentamente è un intreccio di scheletri che mostrano le doigt d’honneur e vari organi umani. A commento di questo percorso sono inserite opere dove si può leggere il riflesso di tensioni novecentesche, come nel Partigiano di Renato Guttuso, ritratto di grande intensità, e in una Combustione di Alberto Burri. Se la tensione sociale è rappresentazione di una frattura del sentire collettivo, un’opera di Jacopo Pontormo, che rappresenta il Sacrificio di Marco Curzio compiuto per salvare Roma, simboleggia appunto il sacrificio del singolo necessario alla salvezza della società intera, e si colloca esattamente al centro tra le due opere del secolo scorso.
Sulla parete opposta dove originariamente c’era lo schermo un gruppo scultoreo possente in legno bruciato che rappresenta L’armata rossa di Adel Abdessemed, avvicinandosi al quale si scopre la mimica facciale che rivela il canto del coro ma anche volti come maschere tragiche sui quali è disegnata la paura delle vittime di un’esplosione in volo. La paura della morte diventa metafora della morte della dignità legata alla repressione.
Alle spalle della grande opera in una nicchia un’installazione di Michelangelo Pistoletto dove dietro delle sbarre e una rete del letto attraverso le quali si legge “L’arte è ancora libera”, creando un effetto paradosso.
L’ultimo gradino del percorso è dedicato alla tensione contemplativa, attraverso la quale si trascende la contingenza, verso un superamento dell’esistenza dei singoli, quindi del corpo fisico e, di conseguenza, anche della sua immagine nell’arte. Come nelle rime di Michelangelo, esposte fra le opere, la bellezza terrena può essere il primo gradino verso la contemplazione dell’assoluto, nell’opera di Francesco Vezzoli l’artista imperatore contempla Antinoo, mentre gli oggetti dipinti da Giorgio Morandi o fotografati da Luigi Ghirri sono testimonianza di una contemplazione possibile anche nel quotidiano. Nondimeno, se la voce di Michelangelo ricorda che per tendere verso l’assoluto è necessario superare la contingenza del corpo, la trasfigurazione cristallina dei propri organi compiuta da Chen Zhen – una sua personale è in mostra nella sede della Galleria a Parigi, nel Marais – in punto di morte prepara all’assenza qualunque immagine nelle forme assolute raggiunte da Ettore Spalletti e Hiroshi Sugimoto.
L’Eruzione del cubano Josè Yaque
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Allestita negli spazi della galleria all’Arco de Becci, la mostra presenta un insieme di opere, realizzate nel 2022 che nascono da un’esperienza vissuta dall’artista durante una visita a La Palma l’anno precedente, quando il vulcano dell’isola era in piena eruzione. “Sapevo che quell’esperienza – ha dichiarato Yaque a proposito della mostra – si sarebbe manifestata nella pittura. Volevo, però, che venisse fuori come la lava esce dalla terra, inaspettatamente, con potenza, con forza tellurica”. Per questo motivo queste opere appartengono a un periodo produttivo e privo di pregiudizi che può essere descritto come un’esplosione di colori. Mentre nella mostra Magma del 2015 le opere avevano un aspetto più sereno e presentavano una gamma di toni terrosi che si associavano alle componenti delle rocce e a una sorta di mondo sotterraneo, in Eruzione sembra che la pittura si sia trasformata in lava che ha bisogno di sgorgare, correre e fuoriuscire, perché non può più essere contenuta. Per l’artista questa è una pittura che si realizza con l’intero corpo, e non solo con le mani. “Mi seduce l’immagine di un corpo che dipinge come se fosse un vulcano in eruzione, che si esprime con potenza”. Yaque continua a lavorare con la tecnica che ha dato inizio a questa serie di dipinti e con la quale ha acquisito una padronanza impressionante. Accarezza la massa di pigmento per mescolare e stendere i colori sulla tela. La forza di gravità e le vibrazioni generano un magma che si trasforma quando l’artista avvolge l’opera in una copertura di plastica. Una volta completato il processo di essiccazione, lo strato protettivo viene rimosso, lasciando una sorta di pittura erosa. Di fronte alle opere della Personale, lo spettatore è catturato dal movimento e dall’energia rappresentati. L’occhio percorre la tela perdendosi nella sua profondità e nel suo ritmo, nelle pieghe della superficie disturbata da complesse sovrapposizioni di colore dove tutto diventa immersivo e avvolgente, come se tutta la materia fusa dall’interno della terra fosse venuta in superficie.
Improntate all’Espressionismo astratto, le tele di grande formato sono dipinte ad acrilico e ricoperte da una pellicola che conferisce un effetto di lucentezza e di matericità, con un’illusione tridimensionale creando dal centro delle linee di fuga. Il risultato è un’immagine dinamica con delle sbavature di grande impatto grazie anche alla saturazione del colore.
Chi è José Yaque
Nato a Manzanillo, a Cuba, nel 1985, attualmente vive e lavora tra L’Avana e Madrid. Ha studiato presso l’Accademia Professionale di Belle Arti “Carlos Enríquez” di Manzanillo (2005) e all’Istituto Superiore d’Arte (ISA) dell’Avana (2011). Ha partecipato alla prima Biennale d’Arte Contemporanea in Portogallo (2010) e ha preso parte alla mostra collettiva del Padiglione Cubano, a Palazzo Loredan, alla 57ª Biennale di Venezia (2017). Il suo lavoro è stato incluso in mostre personali e collettive presso El Espacio23, a Miami; Centro Espositivo Villa Pacchiani, a Santa Croce sull’Arno, in provincia di Pisa; Singer Laren Museum, ad Amsterdam; Wasserman Projects, a Detroit; Voorlinden Museum, a Wassenaar, vicino L’Aia; CAB Art Center, a Bruxelles; Metropolitan Art Society, a Beirut; CENTQUATRE, a Parigi; Galleria Continua (in diverse sedi), tra gli altri. Nel 2018, la Galleria Continua ha presentato una sua installazione di grandi dimensioni ad Art Basel Unlimited, in Svizzera.
Per la prima volta Julio Le Parc alla Galleria Continua
Nello spazio che si affaccia su piazza della Cisterna, Julio Le Parc 1958-2023, mostra dedicata a una figura di primo piano del panorama artistico internazionale. Pittore, scultore e artista plastico argentino, nasce a Mendoza il 23 settembre 1928 e si stabilisce definitivamente in Francia nel 1958. Precursore dell’arte cinetica e dell’Op Art, da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani, viene insignito di numerosi premi, tra i quali nel 1966 del Gran Premio Internazionale di Pittura alla 33ª Biennale di Venezia. Il suo lavoro è interessante perché in America Latina fino ad almeno agli Anni Cinquanta era resistente all’astrazione e a un percorso critico, dominata dal Realismo onirico e sociale. La Galleria lavora con questo personaggio da alcuni mesi e lo espone in mostra a Parigi e nella sede a un’ora dalla Capitale, a Les Moulins con la personale Aurora.
Influenzato inizialmente dal movimento dell’Arte Concreta e dal Costruttivismo, a partire dal 1959, Le Parc sviluppa un percorso indipendente realizzati tra il 1990 e il2023, delle gouache e dei disegni preparatori realizzati tra il 1958 e 1959 e un nutrito corpo di opere della serie Alchimie realizzate tra il 2018 e il 2023. Julio Le Parc comincia ad elaborare questa serie all’inizio del 1988, a partire da piccoli schizzi ispirati da osservazioni fortuite e casuali che, a poco a poco, si concretizzano. Inizia così il processo di ripetizione e confronto che porta alla creazione di una moltitudine di disegni, alcuni dei quali, una volta perfezionati, diventano piccoli quadri. Questi a loro volta saranno il punto dipartenza per altre idee e per opere più grandi. L’artista evidenzia il lento processo di gestazione delle sue opere, riconoscendo che già alcuni dei suoi lavori realizzati tra il 1957 e il 1958 a Buenos Aires, contenevano in germe l’idea delle “Alchimie”. Queste intuizioni maturano quindi nel corso di quasi vent’anni prima di concretizzarsi inveri e propri dipinti. Alchimia è sinonimo di trasformazione, di esperimento ludico e d’illusione ottica. In questa serie, le linee subiscono una metamorfosi, trasformandosi in puntini colorati che si inseguono freneticamente nello spazio. In un atto di sfida creativa, queste particelle di colore oltrepassano audacemente i confini del quadro invadendo la dimensione percettiva dell’osservatore. Si tratta di un’esperienza straordinaria in cui colore e forma si fondono in una danza visiva in grado di sfidare qualsiasi convenzione artistica. La serie Alchimie costituisce una parte integrante dell’avventura personale di Julio Le Parc, un percorso che abbraccia la sua intera opera come artista sperimentale che ha sempre resistito alle pressioni esterne, anche a rischio dimettere in discussione sé stesso e il suo lavoro. Con Continuel mobile losange blanc translucide, la mostra si arricchisce anche di una delle serie più celebri del lavoro di Julio Le Parc, quella dei Continuels mobiles. Formata da centinaia di lamelle sospese di plexiglas traslucido bianco, l’opera, sospesa al soffitto, crea un gioco di trasparenze, movimento e luce. L’irregolarità delle lamelle fa sì che ogni punto luce dia la sensazione di aver vita propria, emanando un potere straordinario. I primi esperimenti con elementi mobili, tuttavia, risalgono ai primi Anni ‘60, quando l’artista riesce a far confluire, in un’unica esperienza, situazioni molteplici legate alle contingenze esterne dell’opera e alla volontà di disconoscere quest’ultima come oggetto stabile e definitivo. Continuel lumière boite n°3 viene realizzata proprio in quel periodo, quando Le Parc si è da poco trasferito a Parigi, e realizza attraverso una serie di light box dei diaframmi in grado trasformare le forme geometriche tramite la modulazione della luce. Questa mostra rivela una costante essenziale della pratica di Le Parc, ovvero il desiderio che lo spettatore possa sperimentare in modo del tutto nuovo il suo coinvolgimento nel percepire l’opera d’arte, alterando così la concezione del ruolo dell’artista, dello spazio espositivo e dell’osservatore stesso. Attraverso la sua pratica, Le Parc crea una situazione d’incertezza e d’instabilità visiva, rendendo il pubblico e la sua esperienza parte integrante dell’opera. In mostra anche un lavoro di Carlos Cruz-Diez, famoso per i Mobiles, installazione in plexiglass che si muovono con l’aria.
Chi è Julio Le Parc
Classe 1928, nasce a Mendoza in Argentina. Vive e lavora a Cachan, in Francia dal 1958. Figura di spicco dell’arte cinetica e contemporanea, è stato uno dei co-fondatori del Groupe de Recherche d’Art Visuel (GRAV) a Parigi nel 1960, al fianco di Horacio Garcia Rossi, Francisco Sobrino, Francois Morellet, Joel Stein e Jean-Pierre Vasarely (Yvaral). Ha partecipato a numerose mostre personali in importanti musei e istituzioni come il Palais de Tokyo a Parigi, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Perez Art Museum di Miami e la Serpentine Gallery di Londra, solo per citarne alcuni. Artista socialmente impegnato, Le Parc viene espulso dalla Francia nel maggio 1968, dopo aver partecipato all’Atelier Populaire e alle sue manifestazioni contro le grandi istituzioni. Personalità intransigente e strenuo difensore dei diritti umani, ha combattuto contro la dittatura in America Latina. Nel 1972 rifiuta una retrospettiva al Museo d’Arte Moderna della città di Parigi, giocando a testa o croce. Le sue opere fanno parte delle più importanti collezioni pubbliche internazionali, tra queste: MET di New York, MOMA di New York, Tate di Londra, il MNAM e il Centre Georges Pompidou di Parigi, LACMA di Los Angeles, Louisiana Museum of Modern Art Humlebaek, Musée d’art contemporain de Montreal, MNBA a Buenos Aires, Walker Art Center Minneapolis, Museo delle Belle Arti di Houston, Musée d’art Moderne de la ville de Paris, Museo Nazionale Reina Sofia di Madrid, Guggenheim di Abu Dhabi, Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, Cisneros Fontanals Art Fondazione di Miami, Museo d’Arte di New Orleans, Delgado Museo di New Orleans.
Alicja Kwade, In Cerchi
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Il lavoro di quest’artista si confronta con principi scientifici e filosofici scardinando i limiti della percezione. Il suo lavoro può essere interpretato come un mezzo per porre domande e fornire risposte alla natura enigmatica del mondo stesso. L’artista ha dichiarato: “La mia libertà come artista consiste nel non dover dimostrare nulla. Propongo ipotesi materiali senza pretese di prova – tentativi scultorei formali di comprensione”. Questa curiosità di fondo e la determinazione a indagare questioni complesse definiscono il suo approccio artistico, trasformando il suo lavoro in un regno di esplorazione in cui le conoscenze consolidate e i preconcetti condivisi possono essere esaminati e messi in discussione. Come suggerisce il titolo, In Cerchi è incentrata sul tema del cerchio, che incarna i concetti di cambiamento e rinnovamento, evidenziando il profondo interesse dell’artista per la trasformazione. Nella torre della Galleria è installato Superheavy skies, un mobile monumentale con rocce sospese per mezzo di strutture in acciaio inossidabile lucidate a specchio che fluttuano all’interno dello spazio, portando un’attenzione acuta alle operazioni di gravità e alla precarietà dei suoi stati di equilibrio. Ruotando lentamente su sé stesso, attraverso un motorino, in senso antiorario, come in uno stato di rallentamento, leggerezza e peso collaborano simbioticamente, estendendo la propria influenza a chiunque entri nella sua orbita. Per Kwade sembra esserci un eterno ritorno, in una ciclicità senza fine che annulla il fine perché senza direzione. Il globo è un motivo ricorrente in Siège du monde (II) e Mono Monde. Sfere di marmo perfettamente rotonde trovano sopra, sotto e accanto a due pesanti sedie fuse in bronzo, alludendo ai pianeti del nostro sistema solare e al legame con la nostra esistenza umana. Evidentemente si crea un cortocircuito che mette in discussione il punto di vista e l’ipotesi di una realtà, di una dimensione in cui i pianeti potrebbero essere più piccoli di un oggetto qualsiasi.
Chi è Alicja Kwade
Nata nel 1979 a Katowice, in Polonia, vive e lavora a Berlino. Il suo lavoro indaga e mette in discussione le nozioni universalmente accettate di spazio, tempo, scienza e filosofia, rompendole cornici della percezione nel suo lavoro. La pratica poliedrica di Kwade comprende scultura, installazioni pubbliche, opere su carta, video e fotografia. In autunno Alicja Kwade inaugurerà una mostra personale al Lehmbruck Museum di Duisburg. Recentemente ha esposto, tra gli altri, nei seguenti musei: Berlinische Galerie- Landes museum für Moderne Kunst, a Berlino; Langen Foundation, a Neuss, im Germania; MIT List Visual ArtsCenter, a Cambridge, negli USA; Dallas Contemporary, a Dallas, sempre negli USA; Haus Esters, a Krefeld e Hamburger Bahnhof, a Berlino. Nel 2019, Kwade è stata incaricata di creare un’installazione monumentale per il Metropolitan Museum di New York. Ha inoltre partecipato a mostre collettive e biennali internazionali con installazioni site-specific: Place Vendome, a Parigi; Helsinki Biennale, nella capitale finlandese; la Biennale di Venezia, 57° Esposizione Internazionale d’Arte.
a cura di Ilaria Guidantoni