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Tre lavori molto diversi tra loro esplorano il tema della difficoltà di uomini e donne nel trovare serenità e appagamento nella relazione: Feydeau (rivisitato da Carmelo Rifici) predilige la chiave della farsa e del paradosso, Molière (diretto da Andrée Ruth Shammah) quella del dramma e Natalia Ginzburg, scelta da Nanni Moretti per il suo debutto a teatro, quella della commedia agrodolce.
La pulce nell’orecchio di Feydeau: un groviglio di equivoci con la regia di Carmelo Rifici
Quando si parla del vaudeville, il pensiero non può che andare a Georges Feydeau (1862-1921), prima attore, poi drammaturgo, regista e scenografo, nel privato uomo dalla vita avventurosa (gioco d’azzardo, alcol e infine la malattia mentale) nel periodo d’oro della belle époque. Le sue commedie, in apparenza spensierate e comiche, sotto la superficie nascondono la denuncia dell’ipocrisia di una certa borghesia, i pregiudizi e le tante scomode verità sottaciute. “Se vuoi far ridere – diceva – prendi dei personaggi qualsiasi: mettili in una situazione drammatica e fa in modo di osservarli sotto una luce drammatica.” Teoria messa benissimo in pratica nelle sue pièce che sfidano il tempo e continuano a suscitare l’interesse dei registi. Tra i titoli più rivisitati sui nostri palcoscenici ricordiamo L’albergo del libero scambio (tradotto anche in napoletano da Eduardo Scarpetta), Sarto per signora, La dama di Chez Maxim, Occupati di Amelia.
Un po’ meno fortuna l’aveva avuta invece La pulce nell’orecchio (1907): celebre la messa in scena 56 anni fa di Luigi Squarzina con Alberto Lionello e quelle più recenti di Gigi Proietti con Geppy Gleijeses e infine quella di Attilio Corsini per la compagnia Attori&Tecnici. A riproporla è ora il regista Carmelo Rifici (direttore della Scuola per Attori Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano) che ne firma anche traduzione, adattamento e drammaturgia insieme a Tindaro Granata. “Feydeau, autore sempre considerato minore e ignorato dal teatro di regia – afferma Rifici – esprime il bisogno di surreale e di follia nelle relazioni tra i suoi personaggi di inizio Novecento, portatori di fantasiosa pazzia: non solo la ben nota matematica della commedia degli equivoci, dei doppi, delle porte che sbattono, ma lo svelamento di trascorse trasgressioni. Avevo il desiderio di affrontare un genere al quale in passato mi ero accostato solo trasversalmente. Volevo mettermi in gioco, trovarmi un po’ a rischio, perlustrando un terreno mai preso in considerazione. Questa commedia possiede una sua raffinatezza, ha uno sviluppo molto intrigante, è un testo di parola in cui emerge l’incapacità del linguaggio di esprimere tutta la forza dei desideri che i personaggi celano dentro di sé.”
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La trama si fonda sul groviglio di equivoci scaturiti dalla gelosia cha la signora Raimonda Chandebise ha cominciato a nutrire da quando il marito Vittorio Emanuele ha smesso di adempiere ai doveri coniugali. Convinta che l’uomo abbia un’amante (in realtà soffre di temporanea impotenza), con la connivenza dell’amica Luciana, a sua volta maritata con il focoso spagnolo Carlos, le fa scrivere una lettera al consorte nella quale, fingendosi un’anonima ammiratrice invaghitasi di lui, gli dà un appuntamento galante in un albergo noto per la sua discrezione nei confronti degli ospiti. Quando gli viene recapitata, Vittorio Emanuele è certo che il destinatario in realtà sia l’amico di famiglia Tornello (corteggiatore di Raimonda) e quindi al convegno manda lui. Da qui parte una girandola di equivoci che hanno luogo sia nell’appartamento dei coniugi dove lavora una coppia di domestici e vive anche il nipote Camillo sia nell’hotel dove, oltre a già menzionati, si alternano un medico che ama travestirsi da donna, il direttore con il suo bizzarro personale tra cui un cameriere sosia di Chandebise.
“Non è pochade – continua il regista – ma una vera esperienza dentro la fantasia di uomini che vivono esperienze irreali come solo nei sogni e così ogni personaggio appare più folle e surreale di quello che lo ha preceduto”. Nell’allestimento di Rifici e Granata la sterzata verso il comico è palese, a partire dalle molte libertà nei confronti del testo originale (dal cambio di nome dei personaggi – alcuni inventati ex novo – all’uso dei dialetti) e dalle molte citazioni estrapolate dalla commedia all’italiana degli anni Sessanta e Settanta con accenni alla Magnani,
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Sordi e Ralli, senza dimenticare i riferimenti a Charlot (il costume e i baffetti di Camillo che, per un difetto palatale non può pronunciare le consonanti) e alla storia (Chandebise che indossa la divisa di re Vittorio Emanuele). All’azione viene impresso un ritmo velocissimo, sottolineato da capitomboli e ruzzoloni, e inframmezzato da canzoni e barzellette, talvolta con risultati un po’ spiazzanti ma di effetto sul pubblico.
Il punto di forza è il cast di giovani attori e attrici (alcuni provenienti dalla Scuola) che giustamente si prodiga in un gioco di squadra, non solo sdoppiandosi nei personaggi ma anche producendosi come strumentisti, a partire da Fausto Cabra (dottor Spacciato e fumantino Carlos), Christian La Rosa (Vittorio Emanuele e il cameriere Buco), Tindaro Granata (Camillo e zia svampita), Marta Malvestiti (Raimonda), Alfonso de Vreese (un rugbista americano suonato), Marco Mavaracchio (Tornello), Giulia Heathfield Di Rienzi (la procace domestica Elide). Le scene decisamente anticonvenzionali e astratte (fatta eccezione per l’immancabile armadio) sono firmate da Guido Buganza e consistono in coloratissimi parallelepipedi e cubi di gommapiuma idonei alle acrobazie ginniche, i costumi vivaci sono di Margherita Baldoni, luci di Alessandro Verazzi e musiche eseguite dal vivo di Zeno Gabaglio. Coprodotta dal Piccolo Teatro e da LAC Lugano (dove ha debuttato), La pulce nell’orecchio rimane in scena alla sala Strehler sino al 26 novembre. www.piccoloteatro.org
Il Misantropo di Molière nella versione di Andrée Ruth Shammah
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Alceste, protagonista del Misantropo, è uno dei personaggi più misteriosi e controversi usciti dalla penna del geniale Molière: paladino che combatte l’ipocrisia di nobili e borghesi, coerente con i suoi rigidi principi al punto di rinunciare all’amore oppure uomo arrogante e presuntuoso che pensa di avere sempre ragione oltre che iracondo e portato al disprezzo e derisione degli avversari? Scritta nel 1866 in cinque atti, rispettando le unità classiche di tempo, luogo e azione e definita dall’autore “una commedia sul ridicolo della virtù”, la pièce è stata ripresa dalla regista Andrée Ruth Shammah dopo la messa in scena del 1977 diretta e interpretata da Franco Parenti a cui lei aveva collaborato. “Molière è attuale, non ha bisogno di attualizzazioni, lo sforzo è alzarsi noi verso il capolavoro, non tirarlo verso di noi: punto d’arrivo della mia idea di teatro in cui metto freschezza, entusiasmo e felicità. Alceste ha una disperata vitalità, ma è solo davanti al potere, davanti ai benpensanti, solo a cogliere la follia di chi lo circonda. Nella messa in scena della sua disperata vitalità non c’è volontà di giudizio. La trama è la sua evoluzione, nessuno ha ragione o torto, esploriamo ogni punto di vista, ogni parola, scoprendo lati oscuri, lasciando intatta la complessità”.
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La storia è nota: innamorato della civettuola e salottiera Célimene, Alceste non tollera la disposizione della giovane ad essere corteggiata anche da Oronte e la gratificazione che trova nell’attenzione rivoltale dai marchesini, ma la cosa che lo rende furibondo è lo scoprire che gli ha ingenuamente mentito. Smascherata infatti dalla pseudo amica Orsina, lei tenta di difendersi: “il vero amore non splende se non sai perdonare”, ma messa alle strette quando lui le propone il matrimonio ma anche una vita lontana dalla corte e isolata dalla società, la ragazza, pur amandolo, rifiuta, privilegiando il mondo fatuo e insincero che la circonda e a cui non sa rinunciare. Diversa da lei è la cugina Eliana, più schiva, schietta e segretamente innamorata di Alceste che, dopo averla ignorata, incassato il rifiuto di Célimene, le si propone ma lei, non accettando giustamente di esser considerata una riserva, gli preferisce il suo migliore amico, Philinte. Questi è un personaggio decisamente rilevante poiché, contrapponendosi agli eccessi di Alceste, rappresenta l’ideale etico del tempo, fondato sull’equilibrio delle passioni, e, forte della convinzione che il mondo non si può cambiare, riesce a fargli notare le sue contraddizioni (l’eccessiva indulgenza verso se stesso e le ferite che s’infligge da solo) e i tanti sbagli, provocandone l’ira e il ripudio.
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Supportata dall’eccellente traduzione in versi di Valerio Magrelli, la regia di Shammah lascia alla parola il posto d’onore, orchestrando con grande equilibrio da una parte l’alternarsi nel salotto di Célimene degli intrighi dei cortigiani, le lusinghe, le profferte amorose, i falsi convenevoli e dall’altra l’isolamento di Alceste, vittima della sua gelosia e incapace di contenere i moti dell’ira, pur rimanendo fedele alle sue convinzioni. Il risultato è di grande nitore e piacevolezza, il giusto approccio per rivisitare un classico. Parte del merito va sicuramente ascritto al protagonista (anche collaboratore al progetto), l’eclettico, autorevole e credibilissimo Luca Micheletti che si divide con successo tra la prosa (anche come regista) e la lirica in qualità di baritono.
“Siamo di fronte a un’opera misteriosa e piena di ombre: commedia che pare troppo profonda e passionale per non essere letta come dramma serio, eppure debitrice alla farsa, della quale evoca lo stereotipo del tradito scornato. Molière costruisce un sapiente gioco di specchi in cui è difficile comprendere persino l’oggetto reale preso a modello per questa satira. La prima vittima del misantropo è lui stesso, perché sprovveduto al cospetto delle passioni: malinconia ed eros sono stati legati a filo doppio fino a Freud. La lotta di Alceste è nobile, lottare contro se stessi è il primo gradino dell’elevazione spirituale, ma mondo e sentimento non riescono a stare insieme. E’ il mio ottavo Molière che ho anche diretto e questo personaggio l’ho da sempre nel cuore, non può non starci anche un po’ simpatico.”
La bella, essenziale ma elegante scena di Margherita Palli è tutta incentrata sul salone dove si affacciano tre porte e una luminosa vetrata che nasconde un giardino, con la sola aggiunta di alcune panche e sedie d’epoca, oltre alla locandina dell’edizione 1977 che occhieggia su una parete, ed è l’ideale sfondo per i costumi di Giovanna Buzzi, tutti simili per le donne a parte il colore e comunque, come per gli uomini, sempre in tinta unita. Accanto a Micheletti troviamo, in una performance di ottimo corale livello, il lucido e perspicace Philinte di Angelo Di Genio, la fatua Célimene di Marina Occhionero, la remissiva Eliana di Maria Luisa Zaffron, il protervo Oronte di Corrado D’Elia e l’ambigua Orsina di Emilia Scarpati Fanetti. Luci di Fabrizio Ballini e musiche a cura di Michele Tadini. Il misantropo è in scena al teatro Franco Parenti di Milano, anche produttore insieme alla Fondazione Teatro della Toscana, sino al 3 dicembre, poi alla Pergola di Firenze dal 16 al 21 maggio 2024. www.teatrofrancoparenti.it
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Con Diari d’amore, che riunisce due testi di Natalia Ginzburg, Nanni Moretti debutta a teatro
In campo letterario, teatrale e politico è stata una delle figure femminili più significative del Novecento: Natalia Ginzburg (1916-1991) viene oggi ricordata soprattutto per il romanzo Lessico famigliare, che nel 1963 le valse il premio Strega, ma anche il teatro ha avuto una parte importante nella sua opera. La prima delle sue commedie, scritta nel 1965, Ti ho sposato per allegria, rimane quella più longeva, resa celebre anche dal film di Luciano Salce del ’67 con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi, dopo che l’anno prima aveva debuttato a teatro con Adriana Asti e Renzo Montagnani sempre con la regia di Salce. Per coincidenza il figlio Emanuele l’ha interpretata accanto a Chiara Francini nel 2013, diretti da Piero Maccarinelli. L’ultima, Il cormorano, invece fu scritta nel 1991, poco prima della morte, ingiustamente dimenticata ma quantomai attuale, dato che tratta della violenza non solo psicologica nei confronti delle donne. Come nei romanzi, anche nel teatro la grande virtù della Ginzburg è quella di confrontarsi con tematiche di grande spessore (il matrimonio, la fedeltà, la maternità e l’amicizia) con un’estrema, solo apparente, semplicità e leggerezza, ma in realtà affondando la lama nelle debolezze, ipocrisia, inettitudine soprattutto – va detto – della borghesia del tempo e non solo. “Mi piace scrivere sotto tono: non solo mi piace ma è l’unica cosa che so fare.” Uno dei nostri più grandi registi, Nanni Moretti, raggiunta la boa dei 70 anni, ha pensato di festeggiarli con il suo debutto assoluto a teatro, riunendo due testi, Dialogo e Fragola e panna, sotto il titolo collettivo Diari d’amore, già presentato su queste pagine. Come sempre assai parco di commenti e interviste (“Più passano gli anni, più ho difficoltà a commentare il mio lavoro”) il regista ha solo precisato di voler essere totalmente fedele alla scrittura dell’autrice, portando in scena il dittico così come lei lo aveva scritto, è così è stato.
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In Dialogo entriamo nella camera da letto di due coniugi che a Roma, di prima mattina, alle prese con il risveglio e la quotidianità, non immaginano che sarà un giorno assai importante nella loro vita, foriero di inaspettate agnizioni. Francesco (Valerio Binasco) e Marta (Alessia Giuliani), le tapparelle ancora abbassate, parlano dei problemi di lavoro di lui, scrittore senza fortuna, licenziato dopo aver rifiutato un trasferimento a Bruxelles, della salute della loro bimba e della petulante domestica a ore Concetta. Quando Francesco inizia a raccontare dell’ultimo incontro con l’amico d’infanzia Michele, Marta sembra sempre sul punto di volergli dire qualcosa ma esita: quasi sentisse palesarsi una brutta notizia, lui si agita nervosamente nel letto, cambiando continuamente posizione. Alla fine lei trova il coraggio e confessa la relazione con Michele, in corso da tempo e prossima alla svolta di andare a vivere insieme in campagna. La reazione di Francesco, quasi incredulo, non può essere pacata pur se l’uomo cerca di controllare la sua rabbia e il desiderio di rivalsa. Quando tutto sembra ormai inevitabile, alla porta suona il cameriere di Michele con una lettera per Marta…. Binasco compone un ritratto assai godibile di un uomo fragile e nevrotico, ancora innamorato della moglie ma al contempo spaventato dal vedersi in un futuro da single separato con molti più ostacoli da affrontare. Giuliani, sotto l’apparente remissività di Marta, cela determinazione e una punta d’egoismo, privilegiando unicamente il proprio benessere, sia psicologico che materiale.
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Più strutturata è Fragola e panna dove interagiscono cinque personaggi. L’azione ha luogo in una villa isolata tra i boschi dove vivono Flaminia (di nuovo Giuliani), il marito Cesare (Binasco), non più una coppia ma separati in casa, con lui che intesse di continuo nuove relazioni con ragazze molto più giovani, e la cameriera Tosca (Daria Deflorian). Una di queste fanciulle, Barbara (Arianna Pozzoli) arriva all’improvviso non sapendo che Cesare è a Londra per lavoro: è scappata di casa lasciando marito e figlioletto dopo che lui ha minacciato di ucciderla a causa del tradimento e non sa dove altro poter andare. Incontra invece Flaminia (al corrente delle avventure del coniuge) che pensa solo a congedarla, mettendole in mano una manciata di soldi. A farla esitare è sia l’arrivo della sorella Letizia (Giorgia Senesi) e di Tosca, animata da sincera compassione: Letizia trova un convento di suore non lontano che è disposto ad ospitarla. Uscita lei, sopraggiunge Cesare, sollevato per non averla incrociata, dato che per lui la storia è definitivamente chiusa. Il ritratto, cinico e spietato, che dà di Barbara, senza tener conto della sua spaventosa infanzia, è quello di una donna immatura e capricciosa, superficiale e avida di gelati (fragola e panna appunto i suoi gusti preferiti), arida nei sentimenti e incapace di amare un marito fedele e il loro bambino. A questo punto, inaspettatamente, Flaminia comincia a prendere le difese della ragazza, tacciando il marito “uomo da niente” e, forse per la prima volta, rendendosi conto del baratro di solitudine e infelicità in cui è precipitata e dal quale sembra voler finalmente uscire, ignorando l’ipocrita proposta dell’uomo che propone una rasserenante crociera con lei e la sorella. Nel frattempo giunge la notizia che Barbara, dopo aver minacciato di togliersi la vita, è fuggita dal convento.
Eccellenti tutti gli interpreti: Binasco, gretto ed egocentrico, Giuliani, prima fredda e altera, poi empatica e cosciente, Senesi, razionale con moderata liberalità, Deflorian in un cameo di struggente tenerezza. La regia di Moretti è una lezione di buon teatro, tradizionale ma perfetta nel dar risalto alla parola, scavando nella psicologia dei personaggi e valorizzando le qualità degli attori. Le scene portano la firma di Sergio Tramonti: interno domestico e claustrofobico con letto spiovente per Dialogo, salotto borghese di raffinata eleganza per Fragola e panna; luci di Pasquale Mari, alternate al buio totale nel primo e da pomeriggio invernale nel secondo; costumi atemporali da notte e da giorno di Silvia Segoloni. Prodotto tra gli altri dal Teatro Stabile di Torino, Teatro di Napoli, ERT, LAC Lugano, dopo il debutto in ottobre al Carignano di Torino, Diari d’amore in queste settimane è in tournée in Francia (dove chiuderà al Théatre de l’Athénée di Parigi dal 6 al 16 giugno 2024), per poi arrivare al LAC (20-21/12), Mercadante di Napoli (10-21 gennaio 2024), Argentina di Roma (dal 23 maggio al 2 giugno 2024). www.teatrostabileditorino.it
a cura di Mario Cervio Gualersi