Lo scrittore cileno Pedro Lemebel ci riporta al tempo della dittatura di Pinochet: a Santiago vive La fata dell’angolo, il travestito protagonista del romanzo Ho paura torero che il regista Claudio Longhi ha messo in scena al Piccolo Teatro (fino all’11 febbraio), mentre l’americano Tracy Letts con Agosto a Osage County, diretto da Filippo Dini per lo Stabile di Torino (fino a oggi 21 gennaio al Parenti di Milano, poi dal26/1 al 4 febbraio al Bellinidi Napoli), solleva il velo sugli inconfessabili segreti di una famiglia.
Una scelta più coerente con il titolo, Il corpo delle parole, dato alla stagione 2023-24 del Piccolo Teatro di Milano dal direttore Claudio Longhi per la prima regia del suo mandato, non si poteva operare: sono le parole che troviamo nell’originalissima, barocca lingua dello scrittore cileno Pedro Lemebel (1952-2015), anche performer (nel 1987 insieme al poeta Francisco Casas fonda il collettivo artistico Yequas del Apocalipsis che realizza eventi pubblici con performance di trasformismo, video e installazioni), cronista, docente (poi allontanato per la sua omosessualità), speaker radiofonico, attivista politico durante la dittatura di Augusto Pinochet e in prima fila per i diritti lbgtqia+, in Italia sinora poco noto ma popolarissimo in tutta l’America latina. Longhi ha portato in scena il suo unico romanzo Ho paura torero, scritto nel 2001 e da noi pubblicato da Marcos Y Marcos, che prende il nome, da una canzone del repertorio popolare spagnolo interpretata da Sara Montiel, attrice e icona per gay, travestiti e transessuali.
“Oltre al fascino del linguaggio”, dice Longhi, “credo sia importante fare i conti con la storia e con ciò che è stato. Agli occhi del lettore italiano è un romanzo di nicchia, per i lettori sudamericani è un grande classico del Novecento, la cui diffusione è legata all’incredibile popolarità di Lemebel, una sorta di eroe nazionale in Cile per la strenua resistenza al regime di Pinochet, regime che ha attraversato rimanendo intoccabile (nonostante la ben nota omofobia del dittatore) proprio in ragione dell’autorevolezza che gli era riconosciuta. Oltre alla poeticità della sua scrittura”, prosegue Longhi, “fortissima nelle accezioni metaforiche, al contempo oniriche e letterarie, va aggiunto che Ho paura torero è anche un romanzo-canzone: il testo è infatti costantemente caratterizzato da citazioni di canzoni che funzionano da sottotesto di molte parti del romanzo. Più che a una trasposizione sulla scena ho pensato a un’edizione teatrale, affidandola al drammaturgo e regista argentino Alejandro Tantanian, e prelevando la pagina romanzesca portandola in palcoscenico senza un filtro di adattamento, bensì giocando sulla vertigine narrativa della memoria, quindi del personaggio principale che parla di sé e si racconta”.
Ho paura torero: la trama e la Fata
Protagonista della vicenda è La fata dell’angolo (nell’originale La pazza della piazza), così soprannominata perché la sua casa si trova all’angolo di una via, un maturo travestito di Santiago, di cui non conosciamo il vero nome, con un passato assai sofferto alle spalle: orfano di madre, dileggiato dal padre per la sua effeminatezza ma da lui abusato e violentato, fuggito ancora adolescente da casa, aveva trovato rifugio presso alcuni travestiti e il più autorevole tra loro l’aveva messo sotto la sua protezione, insegnandogli l’arte del cucito e del ricamo, fino a diventarne un esperto, stimato e ricercato dalle signore dell’alta borghesia che gli affidavano la loro preziosa biancheria. Lo incontriamo nel modesto alloggio nei sobborghi: la sua vita è alquanto solitaria, lontanissima dalla politica e scandita dalle romantiche, zuccherose canzoni trasmesse dalla radio, sua fedele compagna. Pur continuando a sognare l’amore, l’unica trasgressione sono i fugaci incontri sessuali con aitanti giovanotti che si vendono per denaro. “Il suo passo maricondo”, scrive Lemebel, “batteva il tempo della notte finché magicamente compariva un compagno di ballo, sostegno del suo destino per qualche ora, per qualche moneta”. A interpretare La fata è Lino Guanciale, che è stato anche il motore del progetto.
“Il romanzo l’ha scoperto mia moglie”, dichiara Guanciale. “Me l’ha fatto leggere, io me ne sono immediatamente innamorato e l’ho proposto a Claudio Longhi che conosco da vent’anni e con cui da tempo eravamo alla ricerca di un’idea per la sua regia al Piccolo. Più ancora che per la grande storia che si respira, mi ha affascinato lo stile, la qualità della scrittura di questo piccolo romanzo fluviale. Davanti all’opzione di metterlo in scena si presentavano due strade fondamentali: la prima è quella di ridurlo e adattarlo come accade nel cinema e in televisione, la seconda di operare invece una riduzione teatrale del romanzo, in questo modo non rinunciando alla terza persona né alla scrittura originaria con tutte le sue implicazioni di spazi descrittivi e di costruzioni di volumi. E’ una strada che ha illustri precedenti nel Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda diretto da Luca Ronconi e in Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini con la regia di Massimo Popolizio. In Tantanian”, aggiunge l’attore, “abbiamo trovato una sponda geniale ed essenziale per trarre, negoziandola con noi, una prima versione del materiale da portare in scena. Si è lavorato mettendo in luce il nesso tra eros, desiderio e politica. Del personaggio ho cercato di sottolineare la grazia, il coraggio, la furbesca ingenuità, le stesse che ritrovo nelle immagini dei travestiti scattate dalla fotografa Lisetta Carmi. Per certi versi è un’eroina dei nostri tempi che crea un ponte fortissimo coi giovani che vivono con grande impegno la realtà e ci insegna che non è mai troppo tardi per interessarci a quello che riguarda tutti noi. Non è possibile un risveglio politico che non coincida con un risveglio o una educazione sentimentale-erotica, specialmente oggi che tanto si dibatte sull’educazione relazionale ma ci si dimentica quanto di politico ci sia in questo discorso. Vestire i panni della Fata mi sta insegnando quanto coraggio ci voglia a rivelare a se stessi e agli altri ciò che si è e non si può fare mistero di essere”.
A somiglianza di quanto accade al travestito Molina nel Bacio della donna ragno di Manuel Puig, quando in carcere si trova a dividere la cella con il prigioniero politico Valentin, la monotona quotidianità della Fata (in abiti femminili solo nell’intimità della casa, vista la repressione all’esterno) viene sconvolta dopo l’incontro con il giovane e seduttivo Carlos, nome di battaglia del sedicente studente universitario ma in realtà militante del Fronte Patriottico Manuel Rodriquez, che in clandestinità progetta un attentato contro il sanguinario dittatore. La Fata se ne innamora all’istante e asseconda la sua richiesta di tenere nell’appartamento riunioni con i compagni e stivare enormi casse di libri che in realtà sono colme di armi. La loro relazione platonica (Carlos è fermamente eterosessuale) prosegue tra alti e bassi, slanci di tenerezza e scene di gelosia quando all’orizzonte appare Laura, la fidanzata del ragazzo. La loro vicenda si intreccia con quella del dittatore e della moglie Donna Lucia, arrivando quasi a sfiorarsi quando i primi organizzano un picnic al Cajòn del Maipo, località sulle alture sopra Santiago dove i Pinochet hanno una residenza: qui il generale, scorgendo dall’auto in moto la coppia, convinto si tratti di due omosessuali, li associa subito agli odiati e pericolosi comunisti da eliminare. La frequentazione di Carlos porta la Fata a risvegliare la sua coscienza politica: al posto delle struggenti canzoni d’amore, comincia ad ascoltare i comunicati di Sergio Campos di Radio Cooperativa. Pur non manifestandolo, comprende bene cosa contengano le casse e infine si convince consegnare un misterioso pacco a uno sconosciuto. Un episodio per lei indimenticabile è la festa di compleanno organizzata per Carlos alla presenza di una torma di bambini poveri del quartiere che divorano la gigantesca torta. Rimasti soli loro due, scorre molto alcol: felice per il pomeriggio, Carlos si addormenta sul divano e lei si prende la libertà di un contatto sessuale che però poi rimarrà sospeso tra realtà e immaginazione.
Si arriva al settembre 1986: viene finalmente programmato l’attentato a Pinochet, messo a segno con le armi prima nascoste in casa, che, come la Storia ci ha insegnato, purtroppo fallisce per un soffio, lasciando però liberi i responsabili. La Fata in quel momento si trova in un cinema dove sullo schermo c’è Sean Connery in Goldfinger: lei è più interessata alle grazie di un gigolò in sala ma, col pensiero rivolto alla sorte di Carlos, rinuncia alla consumazione. E’ scontata la repressione seguita all’attentato e Santiago scotta per i rivoluzionari: Carlos si dilegua e solo dopo parecchie settimane la Fata in ambasce ha notizie di lui da Laura che le intima di lasciare la città per la loro e la sua salvezza nel caso la polizia arrivasse al gruppo. Lei accetta a patto di rivedere, anche per l’ultima volta, l’innamorato. L’incontro avviene in una località sul mare dove Carlos, in maniera del tutto inaspettata, le offre di fuggire con lui a Cuba, lasciandole però intendere che tra loro ci potrà essere soltanto amicizia. Accetterà la Fata questa per lei sofferta proposta se gli risponde “Lei, principe, sarà il prescelto che chiuderà il sipario sulla mia ultima illusione”?
Come detto la regia di Longhi privilegia l’uso della terza persona che talvolta soverchia i dialoghi tra i personaggi ma ci regala intatto il barocchismo della lingua, arricchendo la vicenda con il forte impatto visuale tramite video tra cui spiccano preziosi reperti d’epoca, poster e coloratissimi murales, felicemente alternando l’azione tra Carlos e la Fata a quella tra Pinochet e la moglie, questi ultimi caratterizzati da forti e gustosi toni caricaturali: lui preda di incubi notturni e ossessionato dagli omosessuali o ritenuti tali, lei più interessata al lusso e all’alta moda di Parigi che alla disgraziata politica del marito. Non mancano le funzionali canzoni (basti citare la voce di Violeta Para in Gracias a la vida) e lo spaccato sulla gente comune, spaventata e ridotta in miseria, di cui si fanno portavoce madri e congiunti dei tanti uccisi o scomparsi che reclamano giustizia. A questo proposito induce tristezza pensare che, caduto il regime nel 1988 e ripristinata l’anno seguente la democrazia con libere elezioni, lo scorso maggio i cileni chiamati alle urne abbiano dato il 35,48% al Partito Repubblicano di estrema destra guidato da Josè Antonio Kast, padre tedesco nazista e lui stesso dichiarato ammiratore di Pinochet.
Nel ruolo della Fata Lino Guanciale si prodiga in una performance davvero eccellente: prima remissivo e rassegnato alla solitudine, poi infiammato d’amore e infine consapevole e battagliero; Francesco Centorame dà al suo Carlos accenti riflessivi e spesso teneri, lontani dallo stereotipo del macho che ci si poteva aspettare; godibile e esilarante la Donna Lucia sopra le righe di Arianna Scommegna e altrettanto divertente il macchiettistico Pinochet di Mario Pirrello; si dividono generosamente in diversi personaggi Daniele Cavoni Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manca e Giulia Trivero. Il difficile compito della traduzione è stato benissimo eseguito da M. L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi; scena di Guia Buzzi più focalizzata sull’interno dimesso della casa a cui fanno da contraltare i sontuosi murales e le affiche; costumi sobri (tranne quelli sfarzosi di Donna Lucia e gli scialli e cappelli della Fata) propri degli anni Ottanta di Gianluca Sbicca; visual design di Riccardo Frati e luci di Max Mugnai. Ho paura torero, prodotto dal Piccolo Teatro, dopo la festeggiata prima alla sala Grassi rimane in scena, come detto, sino all’11 febbraio.
Gli intrecci della famiglia Weston in Agosto a Osage County
Tracy Letts, attore (ha vinto un Premio Tony, l’equivalente dell’Oscar per il teatro, per la sua interpretazione a Broadway di Chi ha paura di Virginia Wolf) e drammaturgo americano 58enne, è noto soprattutto come autore di August: Osage County (Agosto a Osage County), per il quale nel 2008 si è meritato il Premio Pulitzer, diventato celebre anche per il film I segreti di Osage County, diretto da John Wells con Meryl Streep, Julia Roberts e Juliette Lewis. Il titolo fa riferimento a una contea dello stato dell’Oklahoma di cui Letts, nato a Tulsa, è originario.
Al centro della vicenda troviamo la famiglia Weston, composta dalla madre Violet, le figlie Barbara, Yvy, Karen e Mattie Fae, sorella di Violet, che si riunisce in occasione del funerale di Beverly, marito, padre e cognato, che da qualche giorno era sparito in circostanze misteriose. E’ una famiglia lacerata da anni di incomprensioni e reciproche accuse: le figlie da tempo hanno lasciato la casa paterna dove Violet, colpita da un tumore alla bocca, è ormai dipendente da antidolorifici, calmanti e stimolanti, mentre Beverly, in passato stimato poeta, era da tempo alcolizzato e depresso. Barbara, docente in università, si presenta con il marito Bill, anche lui accademico, da cui si è da poco separata dopo che lui si è invaghito di una sua studentessa: con loro la figlia quindicenne Jean, già dedita agli spinelli. Karen arriva con il nuovo fidanzato Steve, un bellimbusto di dubbia moralità che non vede l’ora di mettere le mani su Jean; Yvy, l’unica che vive non lontano, invece ha una relazione segreta con il cugino Charlie Piccolo, figlio di Mattie Fae e, si presume, del marito Charlie. Da subito iniziano le recriminazioni di Violet, nonostante a volte risulti difficile da comprendere quanto dice a causa del problema alla bocca, nei confronti delle figlie per aver abbandonato lei e il marito da sola con la domestica Johnna, nativa americana, assunta da Beverly prima di scomparire. A portare la notizia della morte di quest’ultimo è lo sceriffo, amore di Barbara ai tempi del liceo: l’uomo è morto suicida annegandosi in un lago.
“La speranza di ogni drammaturgo”, scrive Letts, “è quella di poter attingere attraverso la narrazione a temi universali. Come molti americani condivido la storia di famiglie, per lo più discendenti di agricoltori tedeschi, olandesi e irlandesi, che hanno forgiato la loro etica dagli anni della Depressione sino ai tempi del Baby Boom. Condivido il conflitto multigenerazionale che inevitabilmente nasce quando coloro che non hanno nulla, hanno lasciato il loro orgoglio e il loro senso di colpa a coloro che non hanno voluto nulla. Agosto a Osage County è il mio tentativo di esplorare questo scisma generazionale e la sensibilità del Midwest. La pièce ci può dare una possibilità per imparare come le dinamiche della famiglia continuino a plasmare noi e il nostro approccio al mondo”.
In effetti le dinamiche della famiglia Weston dopo il funerale del patriarca si manifestano in modo devastante. E’ difficile riassumere il gioco al massacro che si scatena tra loro: una ridda di recriminazioni, segreti inconfessabili e incesti che vengono alla luce, oltre a impensabili agnizioni. Senza rivelare il sorprendente finale, possiamo dire che Barbara e il marito sanciranno definitivamente la loro separazione e lei sarà l’unica a rimanere accanto alla madre, rispecchiandone la deriva tra alcol e pasticche, con la sola speranza dell’interesse che ancora nutre per lei lo sceriffo; Yvy non fuggirà a New York con Charlie Piccolo come progettato e Karen sposerà il fidanzato, nonostante lui abbia tentato di violentare Jean, stordendola con la droga. Violet, che ha riversato su tutti quanti il suo odio, sfidandoli col proposito di iniziare una nuova vita, risulterà davvero la più forte come afferma di essere?
Regista e interprete di Agosto a Osage County è Filippo Dini. “Questa commedia ruba il titolo a una poesia di Howard Starks (alla cui memoria Letts dedica la pièce, ndr) che racconta della veglia per un’anziana signora morente: intorno a lei si riuniscono i suoi cari, le parlano e la ricordano con amore e riconoscenza. Questo è uno dei molti elementi bizzarri che ci propone l’autore, dato che per tutto il tempo della vicenda assistiamo a scontri, frustrazioni, vendette e rancori mai sopiti all’interno di una famiglia disfunzionale alle prese con l’ultimo atto del suo travagliatissimo percorso. Hanno tentato di amarsi”, racconta Dini, “hanno provato a dialogare, hanno cercato per anni di comprendersi ma ora basta: ogni vincolo familiare risulterà definitivamente spezzato. Mi sono innamorato di questo testo per la sua violenza, vedendo il film, poi l’ho letto e mi sono reso conto che aveva delle possibilità ulteriori che lo strumento cinematografico non poteva sviluppare sino in fondo. Mi è sembrato che la scrittura avesse una potenzialità grottesca, tragicamente comica che amplifica la rappresentazione della violenza che racconta. Ho pensato che fosse possibile astrarre la storia, trasporla in un contesto meno realistico, spingendola verso il racconto di quello che è la famiglia oggi. Questo è l’ultimo anello di un filone meraviglioso, quello di Ibsen, Cechov, Pirandello e poi Eduardo: il dramma borghese”.
La sua regia, come si evince dalle suddette considerazioni, avvolge la vicenda in un alone sospeso tra il naturalistico, il grottesco e il caricaturale, forzando assai i toni talvolta a discapito della drammaticità dei fatti narrati e dell’insanabile conflitto tra i personaggi. Vincente è di certo il gioco di squadra degli attori e attrici, capitanati da un’autorevole, splendida Anna Bonaiuto (che ha raccolto la staffetta da Giuliana De Sio), perfida e pragmatica Violet, ora impasticcata e confusa, ora rabbiosa e aggressiva come una tigre. Le tiene benissimo testa Manuela Mandracchia, volitiva Barbara che però nasconde fragilità e insicurezza. Filippo Dini è il pavido, egoista Bill che mette davanti a tutto il resto il proprio appagamento, Orietta Notari è Mattie Fae, madre crudele e moglie infedele, poi Fabrizio Contri (Beverly), Stefania Medri (Yvy), Valeria Angelozzi (Karen), Andrea Di Casa (Charlie) e Edoardo Sorgente (Charlie Piccolo). Bella scena su due livelli di Gregorio Zurla, costumi (perfetti quelli del funerale) di Alessio Rosati, musiche inquietanti di Aleph Viola, suono di Claudio Tortorici e luci di Pasquale Mari. Prodotto dal Teatro Stabile di Torino, Agosto a Osage County rimane al Franco Parenti di Milano sino a oggi 21 gennaio, poi dal 26/1 al 4 febbraio al Bellini di Napoli.
a cura di Mario Cervio Gualersi