Al Piccolo-Teatro Studio Melato di Milano il regista Liv Ferracchiati rivisita e attualizza Il gabbiano di Cechov mettendo in scena fino al 25 febbraio Come tremano le cose riflesse nell’acqua con Laura Marinoni e Roberto Latini; all’Out Off invece Elena Arvigo ha allestito e interpretato Monologhi dell’atomica sugli eventi di Cernobyl e Hiroshima ed Elena del poeta greco Ghiannis Ritsos.
Il Gabbiano di Liv Ferracchiati al Piccolo
E’ stata la Trilogia sull’identità di genere (Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater e Un eschimese in Amazzonia) a farci conoscere il sempre originale lavoro di Liv Ferracchiati. Il successivo percorso lo ha portato a confrontarsi con i classici: prima Ibsen e poi Cechov. Sia in Hedda Gabler, come una pistola carica e in La tragedia è finita, Platonov, il regista aveva messo in atto una vera e propria riscrittura, nel primo spettacolo usando la modalità dell’autofinzione. Adesso è tornato su Cechov, ispirandosi liberamente e “attraversando” Il gabbiano, validamente supportato dalla consulenza letteraria di Fausto Malcovati (massimo esperto di letteratura russa) e da quella scenica della dramatura Piera Mungiguerra, mettendo in scena Come tremano le cose riflesse nell’acqua, il cui titolo è mediato da una citazione tratta dal racconto Caro vecchio neon dello scrittore postmoderno David Foster Wallace, morto suicida proprio come il giovane Kostja, protagonista del dramma.
I focus tematici che il regista ha deciso di evidenziare sono due: il primo è il rapporto dell’artista (in questo caso lo stesso Kostja che aspira a diventare un grande scrittore) con le cosiddette “nuove forme”, cioè le avanguardie culturali necessarie al progresso della società che però vengono avversate quando sono proposte per la prima volta (cosa che accadde proprio a Cechov, infatti Il gabbiano fu stroncato al debutto nel 1896 per poi essere acclamato due anni dopo); il secondo è il complesso, tormentato rapporto madre-figlio nel quale quest’ultimo cerca disperatamente di essere da lei riconosciuto come uomo e come artista.
Liv Ferracchiati ci ha raccontato le varie tappe di questa creazione. “Il progetto sin dall’inizio si è basato su un lavoro di gruppo: abbiamo programmato tre sessioni per conoscerci. Ho cominciato con l’osservazione degli attori di cui non m’interessava la biografia bensì i loro corpi, procedendo poi con una serie di improvvisazioni seguite dalla scrittura. Ho avuto modo di consultare l’epistolario non ancora tradotto di Cechov e nell’immaginario mi sembrava di confrontarmi con una persona amica (con Ibsen che invece è respingente non prenderei mai un aperitivo) che a teatro vuole divertirsi e far divertire, infatti più volte ha invitato a non trascurare anche gli aspetti comici dei suoi testi: da quegli scritti mi sono avvicinato al personaggio di Nina e l’ho identificata con il gabbiano che in russo è un sostantivo femminile. Non ho fatto una vera e propria riscrittura, piuttosto ho tolto alcune scene dal centro tematico originale”.
Nel solco di questa scelta, il regista ha spostato l’azione ai giorni nostri e, altra importante innovazione, i nomi dei personaggi, tranne quello di Nina, incarnazione stessa del Teatro, vengono universalizzati e corredati da una didascalia esplicativa, così lei è “una che vuol fare l’attrice o la rivoluzione”; Kostja diventa il Figlio, “uno che prova a influenzare la realtà con la scrittura”; Arkadina, “una grande attrice forse in declino”, diventa la Madre; Sorin, fratello di Arkadina, “uno che voleva essere ma non è stato”, lo Zio; Trigorin, “uno a cui piace pescare ma deve scrivere”, diventa il Romanziere; Mascia, “una che porta prugne e il lutto per la sua vita”, è la Vicina, Dorn, “uno sazio della vita”, il Dottore; infine Medvedenko, “uno a cui tocca camminare”, diventa il Maestro. La trama della pièce è assai nota e non ci sembra necessario riassumerla nei dettagli. Allo spegnersi delle luci ci troviamo in una confortevole casa di vacanza (di proprietà dello Zio) affacciata su un lago che, oltre a dominare il fondale delle scena, viene più volte citato: è un vasto open space in cui trovano posto un’attrezzata cucina e un soggiorno corredato dal poltrone, lampade e tappeti. Incontriamo il Figlio che è al contempo desideroso di far leggere alla Madre le prime pagine di una commedia che sta scrivendo per Nina, di cui è innamorato, ma al contempo teme il suo giudizio che infatti risulterà poi essere negativo e quasi derisorio.
A leggere il testo è Nina, che in pubblico difende il lavoro di Kostja ma al Dottore confessa di trovarlo carente e ancora acerbo. La Madre è qui in vacanza con il Romanziere, compagno più giovane di lei e di cui è gelosissima, ma capiamo presto che l’uomo è attratto da Nina che, lusingata e affascinata dalla fama e dall’ammirazione che lo circonda, ricambia le sue attenzioni, suscitando il risentimento del Figlio. Non è questo l’unico amore contrastato: il Maestro ama teneramente la Vicina che però lo disprezza mentre ha una passione segreta per il Figlio, il quale non la considera nemmeno, una delusione che la spinge a cercare conforto nell’alcol. Con loro interagiscono lo Zio, afflitto da problemi di salute, desideroso di trasferirsi in città e molto affezionato al nipote, e il Dottore, faro di saggezza e ironia a cui nessuno dà ascolto.
I fatti precipitano quando il Figlio, ormai consapevole dell’interesse di Nina, a cui ha donato un simbolico gabbiano che ha ucciso, per il Romanziere, tenta il suicidio con la pistola, ferendosi però solo leggermente alla testa. Quando poco dopo chiede alla Madre di cambiargli la fasciatura, assistiamo a una delle scene più drammatiche e intense della pièce: i due dalla tenerezza passano allo scambio di reciproche, violente accuse e recriminazioni, sino a quando lui si scioglie in un pianto dirotto con lei che lo consola. “Sono entrambi – continua Ferracchiati – alla ricerca di un riconoscimento: per lei quello della sua bellezza in declino e della sua arte, da quando comincia a rendersi conto che il teatro tradizionale in cui lavora non è più al passo con i tempi; per lui quello di cercare una nuova forma, pur comprendendo che qualora dovesse essere riconosciuta e apprezzata, entrerebbe in un canone, non sarebbe più “nuova”, si cristallizzerebbe e morirebbe, perciò è utopia aspirarvi”. Questo è dunque il vero motivo del suicidio di Kostja, alla fine riuscito, al di là delle motivazioni personali, in primis la separazione da Nina che è fuggita a Mosca con il Romanziere per poi essere da lui abbandonata per la Madre, oltre all’aver perso il suo bambino ed esser diventata una mediocre attrice confinata nei teatri di provincia. Dopo un paio d’anni la vediamo tornare alla casa sul lago, che nel frattempo è scomparso dallo sfondo, e incontrare per l’ultima volta il Figlio prima che compia il gesto estremo. Nel finale ideato dal regista, sulla scena, quasi del tutto svuotata degli arredi, il soffitto si abbassa, il palcoscenico si sdoppia e viene acceso da una bianca luce abbagliante: qui il ragazzo si congeda con un’invetttiva/invocazione rivolta alla Madre. “Mi hai fatto ammalare di me. Inglobami, risucchiami!”
La regia di Liv Ferracchiati ha il pregio di lasciare intatta la fascinazione del capolavoro di Cechov e quello di avvicinarlo al nostro sentire, operando giustamente una selezione dei quattro atti originari e privilegiando i passaggi più significativi, in una felice alternanza di momenti tragici con altri soffusi di tenerezza, ironia se non addirittura comici, in una sorta di conversazione a più voci, lasciando spesso affiorare un senso di inquietudine anche nella banalità quotidiana di pranzi, chiacchiere e letture. All’ottimo risultato ha contribuito, come dichiarato dallo stesso regista, l’apporto, non solo nella performance, di tutto il cast: Laura Marinoni è Madre autorevole, dispotica, avara e capricciosa ma anche fragile nel suo bisogno d’amore; Roberto Latini, Romanziere svagato ma sempre autoreferenziale, solo preoccupato di trovare spunti per il suo taccuino da poter convogliare sulla pagina; Giovanni Cannata, quasi debuttante ma già capace dare al Figlio passione, fragilità e disperazione; Petra Valentini, entusiasta e determinata Nina ma poi segnata dal dolore. Allo Zio Nicola Panelli conferisce la giusta dose di bonarietà che sa però mutarsi anche in collera, mentre tocca le corde del rimpianto per la mancata vocazione d’artista il Dottore di Marco Quaglia. Camilla Semino Favro e Cristian Zandonella, sono la Vicina e il Maestro, entrambi infelici, legati ormai solo dal vincolo matrimoniale. Le scene essenziali e funzionali portano la firma di Giuseppe Stellato; i costumi, eleganti o casual, sono di Gianluca Sbicca; suoni di spallarossa (irrompono i Queen con Crazy Little Thing Called Love e Luigi Tenco in Mi sono innamorato di te); video di Alessandro Papa e luci di Emiliano Austeri. Come tremano le foglie rifesse nell’acqua, produzione del Piccolo Teatro, rimane in scena al teatro Studio Melato sino al 25 febbraio.
Elena Arvigo in scena con Monologhi dell’atomica ed Elena
E’ una delle attrici più poliedriche e dotate della nuova generazione: Elena Arvigo, di recente insignita del premio Le Maschere del Teatro Italiano come miglior interprete di monologo e di cui ricordiamo anche la personale, struggente versione di 4.48 Psychosis di Sarah Kane, è dal 2013 impegnata in un progetto dal titolo Le imperdonabili su figure di donne legate dal filo rosso della guerra, imperdonabili perché testimoni scomodi della realtà che le circonda: donne che scelgono di non tacere e resistere. Del progetto fanno parte Donna non rieducabile di Stefano Massini, ispirato ai reportage della giornalista Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006, punita per i suoi scritti sulla situazione in Cecenia, i Diari della guerra e i Quaderni della guerra di Marguerite Duras e La metafisica della bellezza, lettere dalle case chiuse, in cui si è cercato di dar voce alle prostitute negli anni antecedenti il 1958 quando i bordelli furono aboliti per legge. A questi si sono di recente aggiunti Preghiera per Cernobyl di Svetlana Aleksievich e Racconti dell’atomica di Kyoko Hayashi (uniti nel dittico Monologhi dell’atomica) e Elena di Ghiannis Ritsos.
“A volte”, afferma l’attrice, “il teatro è un’azione sociale: attraverso questi tre testi così diversi a livello formale (due tratti da testimonianze di persone reali, mentre il terzo è un poemetto d’ispirazione mitologica) viene indagata la componente morale e non politica della guerra oltre alle sue possibilità tecnologiche. Il desiderio è quello di usare il teatro per riflettere sulla necessità di una maggiore consapevolezza e responsabilità in un’epoca e in un occidente minacciati dall’alienazione e da un’umanità cinica e nichilista. Tutti e tre i testi custodiscono un segreto molto simile: la felicità è una cosa semplice e ogni conflitto è scandaloso perché spezza vite reali: non è un problema soltanto politico, ma innanzitutto umano e morale”.
In Preghiera per Cernobyl, pubblicato nel 1997, la giornalista bielorussa Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura nel 2015, racconta l’odissea di Ljudmila Ignatenko, giovane moglie di un vigile del fuoco di 23 anni, chiamato sul luogo dell’esplosione della centrale nucleare il 26 aprile 1986 e ovviamente contaminato dalle radiazioni come tutti i suoi compagni. Sequestrati alle famiglie e immediatamente trasportati a Mosca, vengono rinchiusi nel reparto radiologia dell’ospedale N.6 dove a chiunque era vietato l’accesso, tutti tranne Ljudmila che riesce non solo ad entrare ma a fermarsi accanto al capezzale del marito e assisterlo per 3 giorni, prima che le venga assegnato un modesto alloggio. Mentre all’esterno la verità sulle catastrofiche conseguenze viene taciuta e altri vigili del fuoco e militari sono usati come muratori per riparare il reattore e trattati come carne da macello, a lei i medici non nascondono l’infausta prognosi per tutti loro a cui rimangono in media 14 giorni di vita, i corpi tumefatti e quasi irriconoscibili. Ljudmila stessa, che ha continui contatti con il suo uomo, è ben consapevole del rischio che corre ma la paura della morte non ferma l’amore e la dedizione per lui, oltre a essere un conforto morale per i suoi compagni di sventura insieme ai quali il 9 maggio festeggia la vittoria nella seconda guerra mondiale. Intanto a Cernobyl le case vengono sigillate, gli alberi tagliati e man mano diventa una città fantasma. Il destino le impedisce per pochi minuti di essere vicina all’amato al momento del trapasso: il funerale verrà pagato dallo Stato ma non la pensione dove ha soggiornato. Sappiamo che Ljudmila sopravviverà e cercherà di iniziare una nuova vita senza però mai dimenticare quella tragedia.
Kioko Hayashi è invece un’anziana signora che il 9 agosto 1945 ha assistito alla distruzione di Nagasaki con la bomba atomica: tre giorni prima tre bombardieri americani avevano fatto lo stesso colpendo Hiroshima e seminando in entrambi i casi morte e disperazione. Kioko era una giovane impiegata in un ufficio che, rifugiatasi sotto la scrivania, riuscì a sopravvivere, mentre oltre 40.00 persone persero all’istante la vita e altre 55.000 rimasero ferite. Da 70 anni lei gira per le scuole nel meritorio tentativo di non far cadere nell’oblio questi fatti. “Mi piaceva avvicinare – continua Arvigo – questi due eventi storici apparentemente così lontani che hanno in comune l’atomo e l’atomica. Da una parte scoppia un reattore nucleare e dall’altra una bomba atomica: quello
che hanno in comune è che alla gente non viene detto nulla, né prima né durante o dopo, solo e sempre menzogne. La storia di Hiroshima non tutti la sanno, spesso non si studia neppure a scuola. Quando un evento è passato non interessa più a nessuno, quando la macchina della comunicazione ha fatto il suo dovere, l’argomento è chiuso. In realtà l’inquinamento radioattivo continua nel tempo ma semplicemente non fa più notizia.”
Monologhi dell’atomica, lo spettacolo di e con Elena Arvigo (con la partecipazione di Monica Santoro che traduce dal russo alcuni brevi passi del testo e interagisce con la protagonista anche cantando) nella prima parte si apre con l’interno di una casa in cui c’è una tavola imbandita ma comprendiamo che sia il cibo che l’acqua sono contaminati. Poi la comparsa di una branda ci rimanda all’interno dell’ospedale dove si snoda il resto della vicenda. Nella seconda al centro della scena c’è un leggio su cui si trova la lettera stilata dai vertici militari americani che avvisano il Giappone dell’imminente test nucleare, ma troppo tardi perché le bomba è già stata sganciata. I terribili fatti ci vengono partecipati nella giusta misura, senza enfasi o eccessi, e Arvigo arriva a toccare le corde della compassione e quelle dell’indignazione, usando non solo la voce duttile ma tutto il corpo che trova sempre la giusta postura.
Il poeta greco Ghiannis Ritsos (1909-1990) compose Elena mentre era detenuto in un campo di concentramento nell’isola di Samo durante il regime dei colonnelli. Non è più la bellissima fanciulla che insieme all’amato Paride (che l’aveva rapita e sottratta al marito Menelao a Sparta) causò la caduta di Troia, bensì una donna matura quasi prigioniera nella sua casa delle ancelle che la derubano di abiti, gioielli e perfino mobili e suppellettili, arrivando a disegnare baffi sui suoi ritratti. Si rivolge a uno sconosciuto e invisibile visitatore a cui confida pene e amarezze, rievoca i molti amanti e i tanti morti, a cominciare dal marito, poi Paride, Agamennone, Ecuba, Clitennestra e sua madre Leda. Ora il fatale cavallo è stato relegato in cantina a marcire. Questa sua narrazione comincia una volte finite le abluzioni mattutine (espletati anche i bisogni corporali) al suono della voce della Callas in Casta diva. Si munisce poi di un nodoso bastone con cui attraversa il palco, talvolta celandosi dietro una tenda. Soffre per la solitudine e per il mancato arrivo di cartoline e telegrammi: solo uno sfacciato garzone riesce a strapparle un sorriso mostrando le sue doti virili attraverso l’inferriata del cancello. “Ritsos è un autore di cui sono innamorata – sostiene l’attrice – siamo tutti d’accordo sulla gravità della guerra ma la considerazione è come se presupponesse già un’accettazione del gioco, un aprirsi al giusto e allo sbagliato. Con lui invece emerge l’inutilità del conflitto che è un concetto più complesso e caustico: ogni narrazione bellica si compone di menzogna e mancanza di senso.”
La scena è divisa a metà: davanti una distesa di sabbia su cui sono sparsi vari oggetti e dietro una camera con la zona bagno: Arvigo, anche regista dello spettacolo, in fluttuante morbida vestaglia, siede in poltrona o a terra o cammina. Alla sua Elena regala dolcezza velata di malinconia e talvolta d’ironia, mai astiosa o recriminante: un’eccellente performance che muove all’empatia con il personaggio nella sua ferma condanna della guerra. Accanto a lei ritroviamo Monica Santoro che spesso mima con il gesto quanto detto dalla primadonna, suona il flauto e canta in inglese. Elena, traduzione di Nicola Crocetti, si replica al teatro Out Off di Milano (coproduttore e dove abbiamo visto anche Monologhi dell’atomica) sino al 4 febbraio, poi sarà all’Argot Studio di Roma dal 15 al 18/2. Dal 9 all’11/2 Elena Arvigo sarà in scena al Ridotto del Mercadante di Napoli con Una storia al contrario di Francesca De Sanctis.
www.teatrooutoff.it www.teatrodinapoli.it
a cura di Mario Cervio Gualersi